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Variazioni straniere

Bravi Adrián N.

Narrativa e poesia

Disponibilità: disponibile

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Note sul testo
Variazioni straniere di Adrián N. Bravi è una raccolta di nove racconti, scritti in anni diversi, sul ruolo dei migranti nella nostra società. I protagonisti sono coloro che si perdono nella notte, esiliati, espatriati, ospiti e ospitanti, uomini e donne relegati ai margini, senza approdo, oppure gente per la quale approdare diventa un’ulteriore sofferenza, perché hanno perduto la patria senza acquistarne un’altra. Un albino che all’interno del suo villaggio si trasforma in un forestiero, un anziano che dopo essere stato ucciso dalla propria moglie racconta la storia della sua badante ucraina, gli immigrati arruolati per la costruzione di un muro che impedirà l’ingresso degli stranieri dell’est, un paraguaiano impossibilitato a ballare il tango o un’anziana indiana che decide di andare a morire nella propria terra sono alcune delle figure che tessono queste trame di storie variegate.

Con la sua prosa trasparente e ironica, Adrián N. Bravi mette in luce uno dei temi più spinosi dei nostri tempi trasformandolo in un’avventura surreale.

Note sull'autore

Adrián N. Bravi è nato a Buenos Aires, vive a Recanati e lavora come bibliotecario presso l’Università di Macerata. Nel 1999 ha pubblicato il suo primo romanzo in lingua spagnola e nel 2004 ha esordito in Italia con Restituiscimi il cappotto (2004). Ha pubblicato con l’editore Nottetempo i romanzi: La pelusa (2007), Sud 1982 (2008), Il riporto (2011), L’albero e la vacca (nottetempo/Feltrinelli 2013), che ha vinto il Premio Bergamo 2014, e L’inondazione (settembre 2015). Ha scritto anche un testo per bambini con l’editore Helbling languages. I suoi libri sono stati tradotti in inglese, francese e spagnolo.

Indice
Dopo la linea dell’equatore
Io, il badato
La figlia di Liborio e il suo cappottino rosso
L’albino e il tumuto
Purtroppo non posso ballare il tango
Il muro sulla frontiera
Il marito della selknam
Nascere durante una rivolta
Gli espatriati
Nota dell’Autore

EPub scaricabile gratuitamente

Licenza Creative Commons

Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivatives 4.0 International License


  • Autore/i Bravi Adrián N.
  • Codice ISBN (print) 978-88-6056-436-8
  • Codice ISBN (ePub) 978-88-6056-478-8
  • Linea Editoriale narrativa e poesia
  • Numero pagine 91
  • Formato 12X16,5
  • Anno 2015
  • Editore © 2015 eum edizioni università di macerata
El-Ghibli - Rivista di letteratura della migrazione
Eum Redazione

"La forma breve nella narrativa di Adrian Bravi" di Giulia Corsalini, El-Ghibli - Rivista di letteratura della migrazione, http://www.el-ghibli.org/la-forma-breve-nella-narrativa-di-adrian-bravi/

1. Alcuni caratteri della narrativa.

Conosciamo la narrativa di Adrian Bravi soprattutto nella forma del romanzo; un romanzo non lungo, in cui il protagonista, che nella maggior parte dei casi è anche voce narrante, o comunque offre il punto di vista della narrazione, vive una serie di vicende riferibili a situazioni psichiche ed esistenziali di disagio, complicate e talvolta drammatiche, sebbene l’ideazione fiabesca [1], come ne L’albero e la vacca[2] e ne L’inondazione[3]; o lo svolgimento paradossale, come in Restituiscimi il cappotto[4], La pelusa[5], Il riporto[6] ne nascondano in parte la natura tragica; persino in Sud 1982[7], che è una storia di guerra e di sbandamento che ricostruisce un momento della storia argentina, si ha il senso che qualcosa sia spostato rispetto allo svolgimento doloroso di quella effettiva sciagura storica. Chiarificatore, e non solo per la poetica di questo romanzo, quanto afferma in merito Adrian Bravi in una intervista:

La guerra delle Malvinas era un evento storico con il quale bisognava fare i conti, prima o poi. Ma non tanto perché dovevo raccontare proprio quella storia che, in fondo, m’interessava anche poco raccontare. Il fatto è che mi sono sempre portato addosso i ricordi di un mio amico che era stato in trincea, e che poi è diventato un personaggio del libro, il Negro Pelè. Questo ragazzo, che abitava in una favela e col quale io giocavo a pallone (era bravissimo!), mi ha raccontato, alla fine di una partita, che era stato una ventina di giorni in trincea. E mentre lo raccontava gli veniva quasi da ridere. Lo raccontava con una leggerezza, e in un modo cosi disincantato che ho sempre pensato quanto sarebbe stato bello raccontare con quella stessa voce una storia tanto terribile. Mi raccontava, ad esempio, che il rancio non arrivava mai in trincea e i soldati dovevano sparare ai volatili che capitavano lì sopra. Più che la storia in sé, mi piaceva il modo in cui lui ce l’aveva raccontata quel giorno, alla fine della partita. Mi sono portato addosso questo ricordo per anni, pensando che prima o poi avrei dovuto provare a scriverlo. Questo è stato il motivo principale che mi ha spinto a scrivere il libro[8].

Quale che sia la modalità di distacco o straniamento prevalente, il fiabesco, la visionarietà, l’ironia, la comicità, il paradosso, Adrian Bravi ogni volta alleggerisce (che era, ma ormai il riferimento è abusato, la virtù che Calvino profetizzava per la letteratura del nuovo millennio), ma lo fa secondo una sua direzione, che non è, come spesso succede, prevalentemente stilistica o retorica – sebbene la scrittura si appoggi ad un linguaggio colloquiale e si strutturi in periodi quanto più lontani dalle tradizionali architetture retoriche, non è la leggerezza dei minimalisti o dei laconici, non fa leva sull’omissione, Adrian Bravi cerca di non dire mai niente di più o di meno di quanto deve o vuole dire. Si tratta piuttosto di una disposizione di spirito e di toni; si nutre della tradizione letteraria sudamericana (sui rapporti con la quale, con uno studio specifico, si potrebbe dire molto), ma la si può interpretare anche con una categoria che è tra le più radicate della nostra tradizione, la sprezzatura, che, nella reinterpretazione di Cristina Campo, è, appunto, leggerezza, «con lieve cuore, con lievi mani, /la vita prendere la vita lasciare»[9]. E per questa via la narrativa di Adrian Bravi giunge talvolta al lirismo, un lirismo di immagini lievi, come quella del bambino che sale sul tasso e ne mangia le bacche per entrare in una dimensione fantastica in cui estraniarsi dal proprio presente di figlio di genitori separati; o quella del vecchio Morales, che naviga sulle acque del suo paese inondato in una reduce fedeltà al proprio passato.

Questo, e altro (un discorso lungo e a parte meriterebbero il lavoro e la riflessione dello scrittore sulla lingua), abbiamo imparato a riconoscere nei libri di Adrian Bravi. Ma negli stessi anni in cui scriveva e pubblicava i suoi romanzi, l’autore recanatese scriveva anche racconti, brevi, alcuni brevissimi, nei quali ritroviamo caratteri narrativi simili, ma con delle differenze, riconducibili solo in parte alla specificità compositiva della forma breve .

Anche nei racconti c’è un narratore che parla il più delle volte in prima persona; anche qui lo sguardo è sempre spostato, lo svolgimento inatteso, l’esito imprevedibile (anche quando, come in Io il badato, la fine è annunciata), come succede sempre nella buona narrativa, anche quella che racconta le storie più naturali e consuete (che non è, tuttavia, il caso dei racconti di Bravi). Anche qui prevale l’ironia, che spesso giunge alla comicità, come nelle esternazioni del paraguaiano inetto a ballare il tango o nel variegato ritratto sociale dei dediti alla consuetudine dell’aperitivo; né manca la dimensione fantastica, come nel mondo sacrale e magico del tumuto, di legno, «con una testa allungata a tre punte e una scimmia col becco sulle sue ginocchia»; anche qui c’è la stramberia tragica del badato ucciso dalla moglie e protetto dalla badante; anche qui il dramma viene esorcizzato in pratiche ossessive, come quella del ragazzino orfano di padre che ha la passione di piantare chiodi. Anche nei racconti, in ogni caso, il peso della narrazione è il più delle volte lieve.

2. I racconti autobiografici.

Adrian Bravi scrive dunque da tempo anche racconti, che viene pubblicando in riviste o raccolte miscellanee. Nel 2011 «El Ghibli»[10] ha presentato in un supplemento monografico – insieme ad una introduzione sull’autore e la sua opera di Raffaele Taddeo e ad una rassegna della bibliografia critica – tutti i racconti editi o solo scritti fino ad allora. Tra di essi, occupano sicuramente un posto di rilievo e particolare quelli di chiara natura autobiografica; come il racconto del primo arrivo a Recanati (Approdo a Recanati), la piccola città (tanto più piccola se confrontata con la città di Buenos Aires, da cui l’autore proveniva), in cui Adrian Bravi si è trasferito dall’Argentina e nella quale ora vive; o il ricordo del vecchio casolare dei nonni, a San Fernando, a nord di Buenos Aires, dove lo scrittore ha trascorso l’infanzia, La casa accanto al fiume, le cui acque talvolta inondavano il quartiere (e quelle acque, che, salendo, costringevano il bambino a stare seduto sopra il tavolo della cucina per non bagnarsi, sono diventate per lo scrittore adulto materia duratura di ispirazione, dal romanzo Rio Sauce pubblicato dall’editore Paradiso, a Buenos Aires, nel 1999, a L’inondazione, al racconto I due fiumi, di cui dirò più avanti)[11]; o ancora, anch’esso legato all’Argentina, il ricordo dell’incontro, a distanza di settant’anni, di due fratelli, prozii dell’autore, di cui, nella piccola casa a Léon Suárez, «l’uno chiedeva in italiano e l’altro rispondeva in spagnolo», e che sapevano l’uno dell’altro soprattutto ciò che non la memoria ma l’immaginazione suggeriva loro, eppure si capirono; infine, la ricostruzione dell’occasione della telefonata che lo scrittore scambiò, giovane e inesperto poeta, con Borges:

“Pronto,” mi ha detto Borges con una voce bassa e tremante che scemava quasi fino a scomparire. “Buona sera maestro,” ho detto balbettando, “sono un giovane poeta, lei non mi conosce, volevo invitarla a fare due passi…” A quel punto il vecchio Borges ha cominciato a parlare ininterrottamente, come se mi dettasse qualcosa: un monologo di due o tre minuti circa in cui non capivo neanche una parola di quanto stava dicendo. Aveva la voce talmente bassa e spenta che era quasi impossibile cavarne qualcosa. A un certo punto, però, s’è interrotto e l’ho sentito respirare sulla cornetta. Ancora non so se si era fermato per i saluti conclusivi o per darmi la possibilità di chiedergli qualcosa. Forse si aspettava che io gli dicesse l’ora in cui andavo a prenderlo, oppure mi aveva semplicemente detto che era stanco o che non se la sentiva di uscire. Non sapevo cosa dire, cosa aggiungere. Stavo lì e basta, e dall’altro lato l’autore della Historia de la eternidad, in silenzio. Siamo rimasti qualche secondo così, lui aspettava me e io aspettavo lui; alla fine non so chi dei due ha attaccato il telefono per primo.

In questi racconti Adrian Bravi non sembra attingere al proprio passato per ricostruire la trama frammentaria di un percorso esistenziale, non c’è, mi pare, un disegno autobiografico seriale; piuttosto, all’autore preme fissare immagini e momenti, offrire al lettore scorci rapidi di speciale significato umano e valore lirico. In queste storie, in cui il dato autobiografico non viene rielaborato in invenzioni letterarie, contano soprattutto i luoghi e gli altri.

Solo in un racconto più recente, uscito nel 2015, dal titolo I due fiumi[12], l’autore sembra voler dare, attraverso due poli fondamentali del ricordo, una sintesi più ampia (sebbene il racconto sia brevissimo) della propria esperienza di migrante, figlio di gente emigrata; una parabola esistenziale legata a due corsi d’acqua, il Potenza, fiume dell’infanzia e della nostalgia per il padre in Argentina, e, ancora una volta, il fiume esteso come un deserto che scorreva accanto alla casa dei nonni a Buenos Aires, fiume dell’infanzia e della nostalgia per lo scrittore adulto, che si trova, invece, ogni mattina, andando al lavoro, ad attraversare il Potenza:

Ogni giorno, quando vado al lavoro, attraverso uno dei suoi ponti e mi fermo ad osservare il corso dell’acqua, la boscaglia vicino agli argini (l’altro giorno ho visto da lontano un airone sulla riva, ha immerso il suo lungo becco in acqua e poi ha spiccato il volo con lentezza); mentre l’altro, il fiume della mia infanzia, largo ed esteso come un deserto, ora si è trasformato in un fiume ideale, e spesso anche a me succede che quando racconto a mio figlio delle scorribande su quelle acqua torbide e piene di fango, mi si spegne la voce in gola e non riesco a finire la frase.

3. Variazioni straniere

Nel 2015, la casa editrice EUM, le edizioni dell’Università di Macerata, ha pubblicato una raccolta di racconti di Adrian Bravi dal titolo Variazioni straniere; titolo che allude al fil rouge che unisce le diverse storie: protagonisti dei nove racconti sono infatti dei migranti, degli espatriati, degli stranieri; non direi che il tema è la migrazione, ma sicuramente essa sta sullo sfondo. Vediamoli brevemente.

Il primo racconto, Dopo la linea dell’equatore, già uscito in «El-ghibli» nel 2011 e vincitore del premio Jerry Essan-Massslo 2010, è la storia, anch’essa non priva di suggestioni autobiografiche[13], dei due viaggi per nave verso l’Argentina che un uomo compie all’inizio e alla fine della propria vita (la storia dunque di un’intera esistenza, come la forma breve riesce quindi spesso a fare, in pochi significativi ed emblematici raccourcis)[14]; nel primo viaggio, infatti, il protagonista è lattante, emigrante con i suoi; durante il secondo, che non porta a termine perché viene colpito da un infarto fatale, sta tornando, dopo un breve periodo di lavoro in Italia, nella patria che lo ha accolto da bambino. Nella sua memoria, come in quella del lettore, resta impressa un’immagine della prima traversata, un’immagine tramandata dalla madre, che ne custodisce il ricordo con la sofferenza di una colpa:

La nave sulla quale viaggiavano aveva attraversato da poco la linea dell’equatore ed erano finite le scorte di acqua potabile. Tutti i passeggeri erano in preda al panico. Franco non mollava mai il capezzolo della madre, forse aveva paura anche lui, lo teneva stretto tra le gengive. Nel capezzolo libero si erano attaccati altri bambini. Si bagnavano le labbra con quel poco di latte che riuscivano a succhiare. Le madri imploravano Maria di aiutare i loro figli. Maria faceva quel che poteva con il suo latte. I bambini che non sopravvivevano li avvolgevano in un lenzuolo bianco e li buttavano a mare. La madre di Franco ne aveva contati cinque e quel numero se l’era portato dentro come una colpa per il resto della vita.

Nel secondo racconto, Io, il badato (uscito in «il Reportage» nel gennaio del 2015), le cure e le delicate attenzioni della badante ucraina sono l’ultimo, caro, ricordo del vecchio malato, soffocato dalla moglie in preda ad un incontenibile attacco di nervi. La figlia di Liborio e il suo cappottino rosso (uscito in «Oltreoceano. Rivista sulle migrazioni», nel 2014) è invece la storia, quasi pendant antitetico della precedente, di una truffa perseguita da una donna straniera ai danni di un vecchio. Ne L’albino e il tumuto («El Ghibli», 2009), un ragazzo diverso, albino e bianco, in una tribù di neri, orfano e perplesso nei confronti del totem, il tumuto, alla cui volontà attribuisce la morte della madre, viene prima condotto a morte e poi salvato dal colore della sua pelle, che ha il candore della luna: «Dicevano “luna” e guardavano me; poi “bianca” e guardavano me. Alla fine mi avevano slegato […]». Il quinto racconto, Purtroppo non posso ballare il tango («L’accalappiacani», 2008), è dedicato al ballo argentino («un pensiero triste che si balla», secondo la nota definizione di Enrique Santos Discépolo), da cui è escluso il paraguaiano, inetto ma invidioso dei vicini italiani, che tre volte a settimana vi si esercitano in un balera di periferia. Nel racconto Il muro sulla frontiera (già in una raccolta di racconti, dal titolo Permesso di soggiorno, curata da Angelo Ferracuti ed edita da Ediesse nel 2010), la costruzione di un muro che impedisce agli slavi di passare la frontiera, mentre separa due mondi paralleli, quello delle guardie che vigilano sul muro e quello degli slavi che, bloccati, finiscono per essere impiegati nella sua costruzione, diventa occasione di lavoro e di vita: «A molti slavi piace la vita di frontiera. C’è addirittura chi ha fatto chiamare il resto della famiglia per vivere qui». Il protagonista de Il marito della selknam (in Parole di frontiera, Salerno 2014), così come la moglie che, ultima di una stirpe di indiani, ha scelto di morire nella Terra del fuoco, di dove era venuta, torna in vecchiaia nel suo paese natio. Nascere durante una rivolta («Crocevia», 2012) è la storia di un immigrato che sposa la figlia del proprio datore di lavoro e con lei torna in Egitto, dove il figlio nascerà nei giorni della rivoluzione; ancora una volta la vita di un uomo in pochi episodi determinanti o esplicativi. Infine Gli espatriati (già in Parole per strada, Rovereto, 2010) è un breve apologo, la storia di una donna che chiude con una rete il proprio porticato perché le rondini, che ogni anno vi tornano a nidificare, la smettano di sporcare; le rondini, stremate dalla stanchezza, moriranno su quella rete, nel tentativo di entrare; anche la donna, dopo qualche anno, morirà nella sua casa, in completa solitudine.

Storie dunque drammatiche o fantastiche; ma che più scopertamente rimandano alla contemporaneità e, almeno alcune, ne assumono le più esacerbate contraddizioni. Così, nel primo racconto, l’immagine della donna che allatta i bambini che rischiano di morire di sete e quella tragica dei bambini che, non sopravvivendo, vengono avvolti in un lenzuolo e buttati in mare, nel loro deciso realismo, hanno, nel nostro tempo, una forte allusività. C’è poi il racconto Il muro sulla frontiera – uno dei migliori, per il ritmo narrativo, che ricrea, in un modo che è insieme esitante e lucidamente kafkiano, la storia della costruzione del muro e la vita che si organizza intorno ad esso, baluardo della separazione e paradossalmente occasione di contatto. Nel racconto, in qualche modo, lo sguardo dubbioso del narratore e la spirale kafkiana della narrazione denunciano un’aporia storica, che nel finale acquista afflato epico:

Forse non riusciremo mai ad attraversare la frontiera, o forse la attraverseremo domani stesso, chissà. Noi aspettiamo perché è questo il nostro destino. Quando si realizzerà ciò che abbiamo aspettato forse capiremo che era meglio tornare indietro o non partire affatto.

Così, ancora, è difficile non caricare di una valenza allegorica con implicazioni sociali l’ultimo racconto, che si chiude con l’immagine della rete su cui vanno a morire le rondini sfinite dal viaggio. Muri e reti: è letteratura ma anche storia dei nostri giorni; e nella chiusa la scrittura, che pure parla di rondini, ha il peso di un’epigrafe:

L’anno dopo ha richiuso di nuovo il porticato e sono morte altre rondini. Dopo alcuni anni è morta anche la signora, da sola, in una stanza sopra il porticato. Da allora nessuno ha rimesso la rete, ma le rondini non sono tornate più in quel cortile.

E’ stato detto che la forma breve, la forma del racconto (o anche del romanzo quando manca di una struttura unitaria e organica), consente allo scrittore contemporaneo di concentrarsi su frammenti di realtà, rinunciando ad una visione totalizzante o d’insieme[15]. Ora, se questo assunto sembra in parte confermato dai racconti di Adrian Bravi, e specie da quelli autobiografici, per alcuni dei testi raccolti in Variazioni straniere esso sembra addirittura rovesciato: sembra che la brevità, la compressione delle trame e dei tempi, sia piuttosto la strategia narrativa di una visione larga, comprensiva ed etica del reale; la forza di alcune immagini, come quella dei piccoli migranti morti in mare in Oltre la lingua dell’equatore, o come lo stupefacente candore di luna del bambino che rischia di essere ucciso per la sua diversità; il valore allusivo che autorizza ad identificare un tempo storico e spazi riconoscibili nella dimensione atemporale e fantastica del racconto Il muro sulla frontiera; e soprattutto la disposizione allegorica che si cristallizza nella forma canonica dell’apologo (per sua stessa natura pedagogico e dunque detentore di una visione d’insieme) ne Gli espatriati, permettono di parlare, almeno credo, di una interpretazione non circoscritta, né laterale, di una tragedia mondiale[16].

[1] S. Pent parla di “realismo magico”, Il realismo magico di Bravi, «La stampa», 24. 9. 2015
[2] Nottetempo/Feltrinelli, Roma- Bologna 2013.
[3] Nottetempo, Roma 2015.
[4] Fernandel, Ravenna 2004.
[5] Nottetempo, Roma 2007.
[6] Nottetempo, Roma 2011.
[7] Nottetempo, Roma 2013.
[8] In A. Salvioni, Intervista ad Adrian Bravi, Altre modernità, n. 2, 10 (2009).
[9] Cfr. C. Campo, Gli imperdonabili, Adelphi, Milano 1987, pp. 97-111; i versi, citati dalla Campo, sono tratti dal libretto d’opera Il Cavaliere della Rosa di Hugo vonn Hofmannsthal.
[10] «El Ghibli», anno 8, numero 32, giugno 2011.
[11] Il racconto dell’inondazione ritorna anche attraverso un’analisi delle parole del suo ricordo nel saggio di Adrian Bravi La gelosia delle lingue, Eum, Macerata 2017: «La parola inondazione mi fa pensare alle catastrofi recenti; crecida invece mi riporta alla mia infanzia e ai miei primi ricordi, di quando stavo a San Fernando. Abitavo in una vecchia casa accanto al fiume e quando arrivava la crecida mia madre mi metteva sopra il tavolo della cucina e mi lasciava lì sopra mentre lei, mio padre e il resto della famiglia si adoperavano per tenere a bada l’acqua che arrivava dal fiume (a ripensarci forse quel tavolo è stato e rimane il mio vero paese: oggi in particolare, se dovessi dire qual è la mia vera patria, direi che è quel tavolo lì). I miei primi disegni e forse le mie prime lettere le ho disegnate quando scendeva l’acqua e andandosene lasciava sul muro una sottile crosta di fango che io andavo a scalfire col dito sputacchiato, dopo essere stato messo sopra il tavolo da mia madre o da mio padre. La crecida aveva tutte intorno a sé anche altre parole che si riferivano a quel mondo e, anche se stavano un po’ discoste, facevano parte di un immaginario comune: barro (fango), camalotes (sorta d’isolotti formati dalle piante acquatiche), umbral (soglia) da dove entrava l’acqua e con la quale bisognava fare i conti ogni tanto», pp. 12-13.
[12] Uscito nella rivista «Nostro lunedì: periodico di scritture, immagini e voce (ideato e coordinato da Francesco Scarabicchi)», volume dal titolo Geografie del paesaggio, Ancona, Nuova serie n.3, p.10; ora anche in «Storia e Storie delle Marche. Società, cultura, migrazioni», 4, 2016, pp.194-195, con un’appendice biografica.
[13] Anche questo episodio ha un’origine autobiografica; accaduto ad una zia dell’autore, viene raccontato anch’esso in La gelosia delle lingue, cit.; un saggio che in effetti potrebbe essere studiato anche per i racconti che contiene e che vi assumono la funzione di exempla. «Non ho mai visto piangere mia zia quando raccontava questa storia in spagnolo, la sua lingua adottiva, anche se si vedeva che era molto colpita, nonostante fossero passati parecchi anni; quando però un giorno gliel’ho sentita raccontare in italiano, l’ho vista piangere per la prima volta. Allora ho pensato che esiste una zona intima della memoria dove il passato si fa voce in una determinata lingua,» scrive Bravi nel saggio, p. 25.
[14] Cfr. G. Ferroni, Vicende del narrare breve nel Novecento, in S. Costa, M. Dondero, L. Melosi (a cura di), Le forme del narrare, Atti del VII Congresso Nazionale dell’ADI (Macerata 24-27 settembre 2003), Edizioni Polistampa, Firenze 2004, pp. 235-248
[15] Cfr. G. Guglielmi, Le forme del racconto, in La prosa italiana del Novecento. Tra romanzo e racconto, Einaudi, Torino 1998; A. Guglielmi, Dagli anni ’60 agli anni ’80: i percorsi della scrittura giovanile, in AA.VV, Sul racconto, Il lavoro editoriale, Ancona 1989, pp. 21-31; G. Ferroni, Vicende del narrare breve del Novecento, cit.;
[16]«Lo scrittore brevilineo non si sottrae alle responsabilità etiche e civili e fa della propria scrittura, equamente dosata fra lettera e metafora, ossimoro e analogia, un efficace saggio di lettura della realtà», G. Ruozzi, Piaceri e cure della brevità letteraria, in A. Curcio (a cura di), Le forme della brevità, FrancoAngeli, Milano 2014, p. 111.

Nota bibliografica
Oltre alle pubblicazioni già ricordate, nel 2015 è uscita una raccolta dei racconti di A. Bravi tradotti in spagnolo, a cura di M. Palmieri, S. Cattoni, C. Parrella, Después de la linea del ecuador, La Sofia Cartonera, Facultad de Filosofia y Humanidades de la Universidad Nacional de Cordoba; nel 2016 è uscito Le disavventure e i rattristamenti di Nino Paletta, ispirato alla vita d’osteria, a chiusura di una traduzione di frammenti greci sul vino, Lo specchio dell’uomo, a cura di S. Sacchini, Armillaria 2016. Sempre nel 2016, è uscito il racconto breve Gli zoppicanti , Viadana, FUOCOfuochino, Mantova.

 
El-Ghibli - Rivista di letteratura della migrazione
Eum Redazione

di Raffaele Taddeo, El-Ghibli - Rivista di letteratura della migrazione, maggio 2017, http://www.el-ghibli.org/variazioni-straniere/

La caratteristica poetica fondamentale dello scrittore di origine argentina è l’individuazione dei personaggi come antieroi, cioè come uomini, soggetti che non fanno nulla di grandioso, che non fanno nulla degno di attenzione, che si mostrano nella loro normalità di vita. Da questo punto di vista possiamo affermare che la caratteristica della scrittura di Adrian Bravi è quella del minimalismo, sia per il rifiuto della eccezionalità della vita, sia per una scrittura piana, adeguata in ogni modo all’essere dei suoi personaggi. Anche i racconti presenti in questa antologia non si discostano da questa caratteristica minimalista. Ma se ci fermassimo a questo aspetto faremmo un torto allo scrittore residente a Recanati.
Un aspetto che sembra assente in questi racconti è la tacita e sottile ironia che serpeggia negli scritti fin qui pubblicati.
I personaggi di questa raccolta muovono a sentimenti di pietà, perché la loro è una sofferenza tacita, non gridata ai quattro venti, nascosta ma non meno intensa di altre sofferenze più conclamate. E’ così, ad esempio, il caso di Giuseppe, condannato a una sedia a rotelle per una paralisi che gli impedisce la parola, ma anche i gesti. La sua totale dipendenza dalla moglie, che alla fine lo strangola per una sua disattenzione, la sua totale assenza di rivendicazione così che anche l’ultimo gesto della moglie non solo viene da lui scusato, ma giustificato a causa della propria disattenzione. Ed è pure così, sotto molti aspetti, per il personaggio del racconto intitolato “il muro sulla frontiera”. Anch’egli non mostra disagio, né lancia proteste per la sua condizione di sfruttato. Anch’egli sembra quasi chiedere scusa per l’ingombro che i gendarmi hanno della sua presenza, anche se non ne possono fare a meno.
Il tema di questa raccolta però è centrato sulla migrazione. Abbiamo figure particolari di migranti. Alcuni di loro dimostrano di avere più umanità di coloro dai quali ricevono lavoro, sono sempre portatori di tranquillità e pace, mai di conflitto. Ciò che sembra più rilevante è la condizione di migrazione che viene presa in considerazione. In questi racconti si parla di personaggi che non si sono arricchiti con la migrazione, che hanno sperimentato anche il ritorno, senza successo. Personaggi che sono partiti con qualche briciolo di speranza, naufragata, rimasta sempre piccola anche quando hanno tentato maggiore fortuna ritornando e sperando forse nella solidarietà della comunità d’origine anche dei loro genitori. In fondo anche il racconto “L’albino e il tumuto” può essere iscritto alla tematica della migrazione, perché ogni migrante è un diverso e l’albino, bianco in una società fatta tutta di neri, non può che essere considerato un diversissimo, come diversi sono considerati tutti i migranti. Ma è proprio la sua eccezionale diversità che può salvarlo fino a farne un oggetto di venerazione.
Infine e però non da ultimo vi sono alcune considerazioni da fare su come si chiudono i racconti. Si prenda quello dal titolo “gli espatriati”. Le rondini, dopo aver visto negato per più anni l’accesso ad un luogo tradizionale per nidificare, alla fine non ritornano. Ma poi lo strumento che impediva loro l’accesso a quel luogo non viene più utilizzato. Ciascuno si aspetterebbe il ritorno delle rondini. Si aspetterebbe che venga ripristinato il senso di accoglienza, ed invece “d’allora nessuno ha rimesso la rete, ma le rondini non sono tornate più in quel cortile”. E’ ciò che accade nella realtà perché le rondini perdono la memoria del luogo e tuttavia la conclusione, diremmo, ‘lascia la bocca amara’. Ci aspetteremmo il ripristino di un fatto positivo e naturalmente confortante quale può essere quello del ritorno delle rondini. Ci aspetteremmo la riparazione di un torto o sopruso avvenuto. Ma ciò non accade. Nessun ripristino, nessuna riedizione positiva. Ormai quel gesto naturale del ritorno ad uno spazio gradito viene disatteso. Perché questo? Forse perché la comunità non ha impedito, a chi si opponeva all’accoglienza ogni primavera delle rondini, di portare a compimento il suo atto discriminatorio. Ma forse anche perché la realtà non ci permette e non concede atti consolatori, la realtà è più crudele delle nostre speranze ed aspettative.
Anche il finale del racconto “il marito della selknam” lascia perplessi. E’ straniante, direbbe Sklovskij. Ma in genere tutti i finali di questi racconti sono stranianti.
Remigio, che è ritornato al suo paese dopo decenni e rincontra la sorella rivive con la memoria tanti episodi vissuti con lei quando erano piccoli, poi lei lo porta in soffitta perché vuole fargli una sorpresa e gli presenta un ombrello, quello che lui aveva lasciato quando era partito. “Ma questo particolare, il vecchio Remigio, ormai non lo ricordava più”. Avviene anche qui qualcosa che il lettore non si aspetterebbe perché se un oggetto era così rappresentativo per un personaggio lo avrebbe dovuto essere anche per l’altro ed invece per uno dei due non ha avuto alcun significato tanto che l’ha rimosso dalla memoria. Ricordi, oggetti, che dovrebbero unire a questo punto sembrano dividere, separare. Ciascuno rimane nella sua individualità, nella sua solitudine, nel mondo che lui stesso costruisce e che molto spesso non collima col mondo dell’altro, così che oggetti, ricordi diventano un elemento di separazione.
La scrittura di Adrian Bravi è veramente interessante. La sua maestria nel tracciare vicende e personaggi è straordinaria non perché quest’ultimi sono straordinari, ma perché sono come siamo noi, perché sono poveri e miseri come noi siamo poveri e miseri, perché sono senza gloria e senza infamia così come anche la stragrande maggioranza delle persone in tutte le parti del mondo è senza gloria e senza infamia.
I personaggi del romanziere di origine argentina sono del tutto anomali rispetto a quanto si produce nella letteratura scritta o filmata dei nostri tempi ove l’eccezionalità è la regola. Ormai nella creazione fantastica, nella vita reale si persegue lo straordinario. I reality, come “l’isola dei famosi” vivono di eccezionalità, nell’abbigliamento, nei gesti, nei discorsi, nelle prove. Chi non regge a queste grandiosità viene osteggiato, se non disprezzato, mentre chi ha saputo essere al di sopra per anni viene osannato e portato come esempio, così che anche chi commette un delitto non si ferma al solo delitto, ma lo pensa, l’organizza nella sua mente come un fatto che deve fare spettacolo, che deve lasciare tutti sbalorditi.
La normalità, la dimensione ridotta dei gesti, dei sentimenti dei personaggi creati da Adrian Bravi sono quanto di più umano e più necessario ai nostri tempi. Sono il controcanto indispensabile se vogliamo uscire dalle nostre tormentate nevrosi.

 
Polizia e democrazia
Eum Redazione

di Michele Turazza, Polizia e democrazia, n. 173, luglio-settembre 2016

Nove racconti, scritti in anni diversi, compongono le “Variazioni straniere” di Adrián Bravi, argentino d’origine e marchigiano d’adozione, bibliotecario presso l’Università degli Studi di Macerata. Il filo rosso che lega i suoi scritti è uno dei temi più d’attualità, che affonda però le sue radici fin dalla comparsa dell’uomo sulla Terra: il suo essere migrante, costantemente in viaggio, in fuga da qualcosa o alla ricerca di qualcos’altro.
“Ad ogni modo qui in frontiera per ora il lavoro non manca, perché la maggior parte degli slavi che arriva in stazione viene arruolata per la costruzione del grande muro che divide il paese dal resto del mondo. Sia verso nord che verso sud hanno cominciato ad alzare una grossa barriera protettiva che segue tutta la linea verticale del confine. Non si sa bene da cosa si debbano proteggere…”.

 
La Bottega di Hamlin
Eum Redazione

Di Donato Bevilacqua, "Muri" e "frontiere", il rapporto tra letteratura e migranti, le “variazioni” umane nei racconti: l'intervista a Adrián N. Bravi, La Bottega di Hamlin, 11 ottobre 2016

Variazioni straniere è una piccola raccolta di racconti che Adrián Bravi ha scritto sul tema della migrazione. Un argomento quanto mai attuale che affrontiamo in questa intervista con l’autore, che ci parla delle sue storie, del concetti di muri e frontiere, del rapporto tra letteratura e migranti e delle “variazioni” umane dei suoi racconti.

- Caro Adrián, con Variazioni straniere tocchi il genere del racconto. Come mai per questo argomento hai scelto il ‘vestito’ del racconto e non del romanzo?
- Questo libro raccoglie una serie di racconti che ho scritto in anni diversi. Sono racconti che parlano di stranieri, in senso lato, e fino a quando non ho deciso di metterli insieme (grazie alla proposta della prof.ssa Marisa Borraccini) non mi ero reso conto di averne scritto un discreto numero sull’argomento. Mi sono sempre confrontato con la forma breve, perché ti permette di ampliare le possibilità, da qui il titolo.

- Sono racconti che però sembrano costruire un percorso, come se dovessimo concepire questo libro come una storia unica. È così?
- In parte sì, perché ognuno racconta, a modo suo, una storia di “straniamento” che nell’insieme si trasforma in un libro con molte varianti. Ed ecco che troviamo l’anziano che narra la sua morte e il suo rapporto con la badante, o l’albino nato in un piccolo villaggio sperduto nella giungla che diventa uno straniero per i suoi parenti – mi riferisco al racconto L’albino e il tumuto che fa parte della raccolta. Insomma, c’è un filo comune che unisce tutti i racconti.

- In questo libro ci sono figure “al confine”, “al limite”. Quanto il migrante è davvero così lontano da una piena integrazione nella società?
- È difficile parlare in generale del “migrante” o dello “straniero”, perché il “migrante” o lo “straniero” in sé non esiste, esistono le persone che emigrano e ognuna di queste reca la propria storia, la propria esperienza e tutto quello che comporta il fatto di dover lasciarsi alle spalle il luogo dove si è nati. Io ho cercato solo di raccogliere alcune storie di “smarrimenti”. Ripeto quello che ho detto altre volte: sono convinto che dal punto di vista tassonomico l’uomo andrebbe annoverato tra le specie migratorie. Vivere significa migrare.

- Oggi si parla tanto dei concetti di “muro” e di “frontiera”. Qual è il rapporto dei tuoi personaggi con questo limite da oltrepassare?
In uno dei racconti, Il muro sulla frontiera, si narra la storia dei migranti che vengono arruolati in frontiera per costruire un muro che impedisce il passaggio dei migranti stessi. È un’idea paradossale, ma non fuori dalla realtà che vediamo oggi. I muri, si sa, servono più per arroccare le persone dentro il proprio guscio che per impedire di attraversare le frontiere. Non esistono solo muri di filo spinato o muri di cemento armato (i più folli e cretini). Esistono anche muri linguistici, muri che riguardano l’integrazione, persino l’indifferenza potrebbe considerarsi un muro. Quindi, una persona costretta ad abbandonare il proprio posto sa che dovrà attraversare tanti ostacoli (che un indigeno non si immagina neanche di cosa significa tutto questo), l’importante, penso, è saper declinare questa esperienza per arricchire la propria vita.

- Sembra però che il viaggio per andare al di là dei muri rappresenti anche un viaggio interiore dei protagonisti. Come cambia, se cambia, l’identità dei migranti durante la migrazione?
- Si diceva prima, ogni persona che parte porta con sé la propria storia e sta a lui piegarla in un modo o l’altro. Negli ultimi anni della sua vita Plutarco scrive una lettera, L’esilio, al suo giovane amico Menemaco di Sardi, per consolarlo dal fatto di essere stato mandato in esilio e lo invita a non considerare lo sradicamento come un male in sé. Questo significa che la migrazione, non sempre, ovvio, può trasformarsi in un percorso interiore.

- Qual è il ruolo della letteratura e del racconto nell’era attuale, di fronte alle storie dei migranti? Quale il compito degli scrittori?
- Penso che il compito dello scrittore, se così vogliamo chiamarlo, consiste nel raccontare storie. È un mestiere antichissimo, che risponde a una necessità primordiale. Spesso queste storie ci aiutano a capire meglio quello che vediamo tutti i giorni davanti a noi, ma questo è un altro discorso che riguarda il modo di leggere o di ascoltare. Lo scrittore, diceva Manganelli, sceglie di essere inutile, poi si mette a raccontare come meglio crede le cose, giusto per complicarle un po’. Insomma, lo scrittore ha il compito, e non è poco, di scrivere il meglio possibile, non per cambiare la realtà, ma per cambiare la rappresentazione della realtà.

- Per concludere, Adrián, che cosa sono queste “variazioni” dei tuoi racconti? Da dove nascono e dove ci conducono?
- Le “variazioni” sono figure narrative attraverso le quali ho cercato di raccontare alcune storie di vita. Sono stato spesso sollecitato da questi temi, perché vivo, anche se pienamente integrato, in un posto in cui non sono nato e che ho scelto lasciandomi alle spalle la mia terra d’infanzia (non solo la terra, ma anche la lingua – di fatto, sto scrivendo in una lingua che mi ospita e che ho imparato da grande; la lingua è il mio muro quotidiano). Quindi, la migrazione mi tocca da vicino perché provengo da una famiglia che ha attraversato l’Atlantico diverse volte. Dove ci conducono le “variazioni” non lo so, speriamo che non ci portino lontano dai propri sogni.

http://libri.labottegadihamlin.it/vivere-significa-migrare-intervista-ad-vere-significa-migrare-intervista-ad-adrian-bravi-4401

 
La Bottega di Hamlin
Eum Redazione

di Donato Bevilacqua, La Bottega di Hamlin, 12 settembre 2016

Con "Variazioni straniere", Adrián N. Bravi tocca da vicino il tema dei migranti e della migrazione. Una raccolta di racconti in cui protagoniste sono le piccole-grandi storie di persone semplici che vivono superando frontiere, limiti e confini.

Che cosa sappiamo davvero dei migranti, delle migrazioni, degli stranieri? Pensiamo che tutto sia racchiuso in quei barconi che attraversano il Mediterraneo, ma non è così. Adrián N. Bravi utilizza lucidità ed ironia per parlare dell’immigrazione e dell’integrazione, e lo fa con Variazioni straniere, un libro piccolo che porta in sé il peso di questo tempo.

Nove racconti, che sono stati scritti in anni diversi e già pubblicati in altre riviste e antologie, ma che ora Adrián Bravi ha voluto raccogliere in Variazioni straniere, una specie di percorso sui migranti, sulle loro storie, sulla possibilità di integrazione nella nostra società, e quindi sul loro ruolo nella società. Nella “fauna” immensa e variegata di Bravi ci sono espatriati, esiliati, ospiti e ospitanti. Tutta gente che vive o tenta di vivere ai margini, alla ricerca di un proprio posto in mondi nuovi, a combattere con la possibilità di rimanere attaccati alle proprie radici. Potremmo quasi definire Variazioni straniere come una classificazione di figure a cavallo o al limite, al confine; termini che in questi racconti non indicano solo l’interruzione di una vita senza la certezza dell’inizio di una nuova, ma che stanno proprio a raccontarci dei “muri” materiali, dei confini territoriali che i protagonisti superano andando incontro all’ignoto
Ci sono anziani che vogliono morire nella propria terra o che parlano dopo la morte, raccontando della badante ucraina; ci sono immigrati che devono costruire un muro per impedire l’accesso agli stranieri; persone che diventano straniere nel proprio villaggio; chi non può più ballare il tango. La classificazione di personaggi di Variazioni straniere non è però quella classica, perché oltre alla categorizzazione guarda alle sfumature di ognuno, ai sentimenti, alle possibilità – sfruttate o no -, alle perdite e al dolore. Ogni racconto termina con l’idea di come potrebbe essere stato.

Adrián Bravi ci sta dicendo che, in fondo, sappiamo davvero poco dei migranti, degli stranieri. Ci sta dicendo che i confini ancora esistono, che una patria non vale un’altra, che dietro ad ogni uomo o ad ogni donna c’è una storia che merita di essere raccontata; che i viaggi verso l’ignoto non sono solo quelli dei barconi e del Mediterraneo, ma che dovunque esiste un muro, lì c’è uno straniero, una possibilità…di rifiuto, di accoglienza, di racconto. Lì ci sono varianti e variazioni, differenze da scoprire.

"Io che lievemente chiudo gli occhi e mi lascio andare per sempre […] verso l’altro mondo".

Leggi la recensione alla pagina http://libri.labottegadihamlin.it/recensioni/adrian-n-bravi-variazioni-straniere-4379

 
Leggere:tutti
Eum Redazione

Di Valentina Tonolo, Leggere: tutti, n. 104, giugno 2016, p. 46

Variazioni straniere è una raccolta di nove racconti scritti e pubblicati in tempi diversi in varie riviste e antologie.
Un libro di piccole dimensioni e di novanta pagine, potrebbe sembrare esile, ma in realtà non può non lasciare il segno per originalità e acuta ironia.
Le storie pur drammatiche sono narrate con uno stile preciso, pulito e sviluppate con una struttura mai scontata. Quando si scorre un buon libro come questo si ha la sensazione che leggere non sia una perdita di tempo, ma la possibilità di recuperarlo nella scoperta di mondi che l’autore ci mette a disposizione.
“L’uomo in fondo resta sempre un animale migrante, no?” Dice, in un racconto, Remigio sposato a Buenos Aires con Joaquina, indigena adottata che decide di morire nella terra dei guanachi tra le impronte dei suoi antenati. Vedovo dopo sessant’anni di vita anche Remigio sceglie dove morire. Ritorna dalla sorella a Recanati, affrontando la lunga traversata.
Migranti sono la maggior parte dei protagonisti. Migranti tra migranti, che strappano o vengono strappati dalla terra d’origine per andare incontro alla speranza di un destino favorevole che spesso si trasforma in tutt’altro.
Franco a quattro mesi, insieme alla famiglia, arriva con la nave in un quartiere malfamato di Buenos Aires e a cinquantacinque anni ritorna in Italia malato di cuore e poi ancora riprende la nave per ritornare in Argentina. È proprio la nave dunque ad accompagnarlo da un Continente all’altro, in età diverse, diventando la sua dimora passeggera, che lo ospiterà anche nel giorno della morte.
Giuseppe “che parla” da morto, ucciso dalla moglie, sceglie di raccontare gli ultimi mesi della sua vita, in prossimità dei novant’anni, per ricordare la badante ucraina, Irina, quella che gli ha tenuto le mani e accarezzato il volto mentre arrivava l’ambulanza per ricoverarlo.
Liberio settantaduenne, senza reagire troppo, accoglie in un’atmosfera surreale una donna dall’età indefinibile, polacca, che dice di essere sua figlia.
Ogni storia fa contemporaneamente sorridere e rabbrividire per i fatti narrati come se l’autore mostrasse la vita senza accusarla mai di essere ingiusta, come se tutti i migranti non la respingessero per risentimento, ma la accogliessero per non saper fare altro. Un’attenzione particolare va all’ultimo racconto, breve, ma prezioso.

Il sito di Leggere: tutti http://www.leggeretutti.net/

 
Scaffale
Eum Redazione

Per la rubrica "Scaffale" in onda all’interno di "Buongiorno Regione" e del "TG Marche" Giancarlo Trapanese ha segnalato il volume Variazioni straniere di Adrián N. Bravi

Guarda la puntata (min. 23.35 ca) http://goo.gl/PwiBJo

 
Sesamo didattica interculturale - GIUNTI Scuola
Eum Redazione

Adrián N. Bravi, scrittore e bibliotecario, pubblica una serie di racconti che, con ironia e leggerezza, gettano uno sguardo dolceamaro sul ruolo dei migranti nella nostra società.

Esce per le edizioni Eum dell'università di Macerata una raccolta di racconti di Adrián N. Bravi, nato a Buenos Aires e da circa vent'anni residente nelle Marche, a Recanati. Già autore di romanzi (in spagnolo e in italiano) e di un testo per bambini, Bravi raduna in questo nuovo libro nove storie accomunate da un tema di fondo: non tanto e non solo la migrazione, ma il sentirsi o l'essere percepiti come stranieri in un luogo, i modi dell'incontro con l'alterità e quelli della sua gestione.

Franco Jakarkiewicz, per esempio, muore cinquantenne d'infarto mentre torna su una nave in Argentina dopo esser stato portato in Italia e allattato insieme ad altri bambini su un barcone dalla mamma migrante. Attraverso gli occhi del pensionato Giuseppe Spadoni riceviamo un innamorato ritratto di una badante ucraina (cui la moglie dello stesso Giuseppe infligge ordini insopportabili e malevoli pregiudizi). Ci sono anche le storie di un albino emarginato nel suo villaggio, di un paraguaiano che non sa ballare il tango, di alcuni immigrati arruolati per la costruzione di un muro che impedirà l’ingresso di altri stranieri nel Paese (uno dei pezzi più belli e doloranti della raccolta).

Come si vede, sono tutte situazioni in bilico tra la peggiore realtà e l'avventura surreale, rese peraltro godibili da uno stile leggero e piano, che conosce le virtù dell'ironia. Proprio grazie a questa scrittura Bravi riesce a lanciare potenti avvertimenti al lettore, inchioda tic e pregiudizi atavici, denuncia le innumerevoli facilonerie buoniste che tanto spesso nascondono criminali atti di vigliaccheria e pigrizia nei confronti dell'Altro vicino e lontano.

Sesamo didattica interculturale - GIUNTI Scuola: http://www.giuntiscuola.it/sesamo/magazine/news/variazioni-straniere/

 
Storia e fantasia si fondono nell’ultimo libro di Adrian Bravi dedicato ai migranti,
Eum Redazione

Il volume è stato segnalato nel sito web di informazione locale Il Cittadino di Recanati.

http://www.ilcittadinodirecanati.it/notizie/27094-storia-e-fantasia-si-fondono-nell-ultimo-libro-di-adrian-bravi-dedicato-ai-migranti-variazioni-straniere




 
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