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Una cultura classica per la formazione delle élites Mostra a grandezza intera

 
 

Informazioni

Una cultura classica per la formazione delle élites

L’insegnamento del latino nei Ginnasi-Licei postunitari attraverso l’Inchiesta Scialoja sull’istruzione secondaria

Morelli Patrizia

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Disponibilità: disponibile

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Note sul testo

Questo volume, frutto di approfondite indagini archivistiche, accoglie i primi risultati di un’ampia e organica ricerca sulla storia dell’insegnamento scolastico della lingua e della letteratura latina nell’Italia del secondo Ottocento. Esso ripercorre le vicende relative a tale insegnamento nei primi decenni postunitari, puntando a lumeggiare il complesso e controverso rapporto intercorso tra le aspirazioni e la progettualità che alimentarono le scelte della classe dirigente liberale in materia di riordinamento dell’istruzione secondaria classica all’indomani dell’unificazione nazionale, le disposizioni normative emanate su tale versante in applicazione della legge Casati e le concrete forme e modalità con le quali l’insegnamento del latino fu impartito nei Ginnasi e nei Licei della penisola a partire dal 1861. Per la sua ricostruzione l’Autrice si avvale di una cospicua documentazione archivistica in larga misura inedita: in primo luogo le testimonianze e i dati raccolti nell’ambito dell’Inchiesta Scialoja sull’istruzione secondaria in Italia (1872-1875), che offrono uno spaccato d’indubbio interesse sulla variegata realtà organizzativa e didattica delle scuole secondarie classiche nella stagione postunitaria. Il volume approfondisce il fondamentale ruolo esercitato dall’Inchiesta Scialoja e dai coevi dibattiti politici e culturali degli anni Settanta nella maturazione di una presa di coscienza generale della classe dirigente del Paese sui limiti e sulle gravi carenze in cui versava quel particolare segmento del sistema scolastico nazionale – l’istruzione secondaria classica –, al quale erano affidate le sorti della formazione delle élites politiche, economiche e culturali della nazione. Una presa di coscienza i cui frutti, in termini di interventi riformatori e di provvedimenti vòlti a porre rimedio alle principali inadeguatezze e a favorire il rilancio e la crescita delle scuole classiche e dell’insegnamento del latino, si sarebbero concretizzati solo molto più tardi, a partire dai primi anni Novanta.

Note sull'autore

Patrizia Morelli (Macerata 1955), insegnante di ruolo nei licei, è dottoranda di ricerca in «Storia dell’educazione e della letteratura per l’infanzia» presso il Dipartimento di Scienze dell’educazione e della formazione dell’Università degli Studi di Macerata. Ha pubblicato diversi contributi sulla storia della didattica disciplinare e dei libri di testo tra Otto e Novecento. E’ membro del Comitato di redazione della rivista internazionale History of Education & Children’s Literature.

  • Autore/i Morelli Patrizia
  • Codice ISBN (print) 978-88-6056-165-7
  • Numero pagine 210
  • Formato 14,5x20,5
  • Anno 2009
  • Editore © 2009 eum edizioni università di Macerata
Il Mestiere di Storico
Eum Redazione

di Mauro Moretti, Recensioni, Il Mestiere di Storico, http://www.sissco.it/recensione-annale/patrizia-morelli-una-cultura-classica-per-la-formazione-delle-elites-linsegnamento-del-latino-nei-ginnasi-licei-postunitari-attraverso-linchiesta-scialoja-sullistruzione-secondaria-1872-1875/

Sul rilievo dell'Inchiesta Scialoja come testimonianza sul funzionamento e sui problemi dell'istruzione secondaria in Italia, pur considerando la sostanziale inefficacia pratica dell'iniziativa, aveva già richiamato l'attenzione, con alcuni fondamentali saggi e contributi documentari, Marino Raicich. L'idea di una sistematica lettura di quelle carte d'archivio, e di una loro presentazione in chiave tematico-disciplinare, centrando l'analisi sulle questioni legate all'insegnamento del latino, è comunque interessante e meritevole di attenzione. In questo studio si riserva un ampio spazio alla citazione diretta dei documenti, con qualche compiacimento e qualche ripetizione, e la scelta non è inopportuna, dato che al lettore viene offerta la possibilità di un confronto diretto con la pluralità delle voci (politici, accademici, uomini di scuola, ma anche padri di famiglia, magari, questi ultimi, di un certo peso e prestigio all'interno delle loro comunità) consegnateci dall'Inchiesta. Andrà tuttavia rilevata un'eccessiva timidezza dell'a. di fronte al suo materiale, un'aderenza espositiva alla logica dei documenti, che vengono riprodotti e lasciati parlare più che interrogati, mentre la diversa natura delle carte utilizzate (accanto alle risposte al questionario predisposto per l'inchiesta stanno, ad esempio, ed a ragione, alcune relazioni annuali redatte dai presidi sull'andamento di singoli istituti di istruzione secondaria) e la varietà delle osservazioni e delle proposte che emergono dall'Inchiesta avrebbero richiesto un più coerente sforzo di sistemazione. Quando da una parte, ad esempio, in alcune testimonianze si deplora la «decadenza» degli studi classici nell'Italia unita, e in altri casi si registrano gli sforzi fatti per introdurre, valendosi anche di manuali e strumenti didattici rinnovati, nuovi principi e nuovi metodi nello studio delle lingue classiche - Raicich parlava di «decoroso galleggiamento» raggiunto a fine '800, e lo faceva segnalando un progresso -, occorrerebbe interrogarsi sui termini di confronto e sui diversi punti di vista che sostenevano simili considerazioni. «Decadenza», forse, rispetto ad una pratica tardo-umanistica e, per così dire, gesuitica del latino, distante dai canoni della nuova filologia; «progresso», e in fondo era scontato, sul terreno del sistema scolastico, di un insegnamento organico e formalizzato. Emerge comunque con chiarezza il ruolo centrale allora assegnato al latino, sia sul piano curricolare che su quello culturale. Sullo sfondo, poi, stanno una serie di grandi questioni legate al faticoso avvio di una moderna vita scolastica nell'Italia unita: il problematico coordinamento fra ginnasi e licei, la composizione del corpo docente, che per decenni fu reclutato senza tener conto di tutti i requisiti richiesti per l'accesso all'insegnamento, il rapporto con l'università e la formazione degli insegnanti.

 
Ricerche di Storia Politica
Eum Redazione

di Massimo Fanfani, 2/10 anno XIII

La pletorica inchiesta sulla scuola secondaria promossa da Antonio Scialoja, quando nel 1872 fu ministro dell'Istruzione, e condotta da una dozzina di commissari di valore (fra cui Bonghi, Cremona, Finali, Settembrini, Tabarrini, Tenca) attraverso inchieste e documenti da ogni parte d'Italia, coinvolgendo docenti, esperti, genitori e chiunque avesse qualcosa da dire, accumulò nel giro di pochi mesi una vera valanga di carte, ma non approdò ad alcun provvedimento concreto - caduto il governo Lanza nel luglio 1873 - né servì all'approfondimento dei problemi emersi perché quei documenti, anche per il loro tono fumoso e ripetitivo, restarono praticamente inediti.
L'indubbio pregio di quell'impresa sta nell'aver consentito agli storici d'oggi (cfr. A. Montevecchi, M. Raicich, L'inchiesta Scialoja e la crisi della politica scolastica della destra, Roma, 1994), di poter osservare dall'interno il sistema dell'istruzione secondaria e classica che, dopo la legge Casati (1859), stava decollando nell'Italia postunitaria; e di scoprire che proprio ginnasi e licei, istituiti per formare il ceto dirigente del nuovo Regno, erano uno degli anelli più deboli della politica scolastica statale. Si trattava di formazione elitaria, esplicitamente destinata alle classi «che per la loro speciale condizione e fortuna sono chiamate a influire direttamente sui destini della nazione» (B. Berti 1850, cit. a p. 17), ovvero a quella «somma di cittadini intelligenti, volenterosi, attivi, che costituiscono il nerbo della società civile» (Scialoja 1872, ivi) e che devono esser di guida ai meno agiati. Tuttavia, pur coi migliori propositi, quel tipo di scuola mostrò subito la sua inadeguatezza: «gli studi classici dei nostri licei sono molto indeboliti [...] gli esami sono eccessivamente miti [...] i giovani passano alle Università imperfettamente preparati» (C. Matteucci 1865, p. 77). Difatti, mancando una qualsiasi scelta all'ingresso («non regge il cuore di rigettarne alcuni se proprio non danno prova di idiotismo», a Firenze 1873, p. 126), si finiva per livellare al ribasso («nessuno, anche quando sta per uscire dal liceo è atto a leggere un luogo latino», a Messina 1871, p. 159).
Tale insuccesso dipendeva da molte ragioni, ma innanzitutto dal supplizio di Tantalo di una scuola statale e laica nata in contrapposizione alle scuole cattoliche, ma costretta suo malgrado a riprenderne metodi e strutture mentre veniva via via soppiantandole. Così i nuovi ginnasi-licei dovettero in fondo rifarsi ai tradizionali programmi «gesuitici», puntando tutto sullo studio delle lingue classiche; riutilizzarono spesso gli stessi docenti e gli stessi edifici degli istituti sfrattati; appesantirono con un mal assimilato filologismo di pronta importazione tedesca il precedente esecrato formalismo: «Il poco profitto ... lo attribuisco molto anche al vecchio pedantesco metodo d'insegnamento di cui sono tenacissimi gli ottusi professori, allievi per lo più della vecchia scuola gesuitica» (il direttore del Ginnasio di Fano 1864, p. 148).
Tuttavia, al di là dei vari elementi di continuità col passato (e più che col modello della Ratio studiorum - i gesuiti ridottisi a ben poco in Italia - coi metodi delle scuole degli altri ordini religiosi), lo spirito complessivo dei nuovi istituti statali era profondamente diverso, come si nota proprio nell'insegnamento delle lingue classiche e in particolare del latino, cardine della scuola gesuitica e in genere delle cattoliche, dov'era usato e vissuto come reale strumento di educazione e di collegamento sovranazionale, tanto che fino alla Rivoluzione era stato la lingua della cultura e della scienza, delle università e dei seminari (che ne erano spesso, come quello patavino del Forcellini e del Facciolati, ottimi centri di studio), contribuendo peraltro alla moderna convergenza delle lingue europee. Adesso, invece, il latino viene considerato prevalentemente in una inedita dimensione ideologica e nazionalistica, per ciò che lo collega al mito di Roma, per i valori civili e morali che può suscitare nelle future élites attraverso le opere dei suoi classici, per il tono nobilitante che può ririverberare sull'idioma nazionale. E così si comincia subito ad insegnarlo non come uno strumento da possedere e da saper all'occorrenza usare, ma in funzione della comprensione di uno scelto canone di autori, spostando l'accento dalla lingua ai contenuti, come mostrano la rinuncia alla composizione latina, l'insistere sul versante glottologico e storico-letterario, e simili novità che si intravedono anche dall'inchiesta Scialoja. Insomma latino e greco nella nuova scuola laica si studiano per la loro immaginaria funzione di selezione sociale (che in realtà era a monte), come «palestra» per gli studi liberali, per la «concentrazione del pensiero», e per tante altre ottime ragioni, ma fondamentalmente proprio perché «le lingue antiche hanno il vantaggio di essere morte» (A. Piazzi 1903, p. 90). E infatti il latino d'ora in avanti muore davvero, come poi si vedrà da tutti i velleitari tentativi di rianimarlo e dal rarefarsi del suo impiego, anche nell'ambiente clericale. Mentre coloro che un tempo avevano saputo vivere con il latino e talvolta, in una dialettica non infruttuosa con la lingua materna, piegarlo a esprimere modernamente pensiero e sentimenti, erano quasi tutti usciti, fossero o meno di condizione agiata o d'idee retrograde, dalle vecchie scuole dei preti: l'elenco sarebbe lungo, ma si pensi a Vico, Volta, Prati, Pascoli.
Nella presente pubblicazione la Morelli ha il merito di aver vagliato i documenti dell'inchiesta Scialoja sotto la significativa e basilare angolatura dell'insegnamento del latino, ma non dimostra di cogliere appieno il problema sottostante e la sua complessità.

 
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