di Chiara Lepri, LIBER n. 104, Strumenti. Per operare nel mondo del libro per ragazzi, p. 79
La narrazione di storie, si sa, lascia un segno profondo nei piccoli ascoltatori: consente loro di vivere un'esperienza altra da sé, virtuale, e dunque di scoprire forme, valori, significati alternati a quelli conosciuti; inoltre va a nutrire l'immaginario, ne amplia le prospettive, ne ridescrive i confini. Tale connotazione di formatività, storicamente ha interessato le intenzioni pedagogiche degli adulti, i quali ne hanno veicolato e controllato forme e modalità, giudicandone i contenuti e valutando l'eventuale proposta ai ragazzi, anche - e soprattutto - in senso didattico. Ciò è accaduto non solo per la letteratura per l'infanzia, ma anche per il cinema per ragazzi. In un recente e denso saggio, All'ombra del proiettore: il cinema per ragazzi nell'Italia del dopoguerra, Davide Boero, già coautore con Pino Boero del volume La letteratura per l'infanzia in cento film (Le Mani, 2008), ripercorre con puntualità e rigore metodologico la storia del cinema per ragazzi in Italia dal secondo dopoguerra ai primi anni '60. Vediamo, allora, come il cinema rivolto ai ragazzi fosse inizialmente guardato con sospetto per la forza emotiva delle immagini in movimento, per poi trasformarsi in uno strumento utile più per facilitare il lavoro di insegnanti e genitori che per formare (o divertire) i più giovani: "il cinema per ragazzi nasce quindi come prodotto artificiale, costruito facendo attenzione ad adeguare la complessità del reale agli stadi dello sviluppo infantile" (p. 60).
Di particolare interesse risulta l'approfondimento sul dibattito pedagogico che vide impegnati, e con esiti diversi, intellettuali del calibro di Luigi Volpicelli, Raffaele Laporta e Giuseppe Flores D'Arcais: se il primo dapprima riconosce la pericolosità del mezzo cinematografico quale potenziale minaccia alla salute psichica dei ragazzi e ne contempla infine un utilizzo didattico purché incanalato "in vie socialmente accettabili", Laporta ridimensiona il valore dei film didattici, utili nella formazione intellettuale ma poco incidenti nello sviluppo morale e sociale, mentre D'Arcais individua nell'opera cinematografica un valore artistico in grado di attivare la classe e di consentire lo stabilirsi di un dialogo proficuo tra docente e allievi.
Boero prosegue la sua indagine esaminando un ampio apparato documentario tratto da riviste pedagogico-magistrali e di critica cinematografica e da riferimenti legislativi, sempre nell'ottica di sondare non solo le riflessioni degli studiosi, ma anche le iniziative e i progetti effettivamente realizzati, come l'istituzione, nel 1956, del Centro Nazionale per i Sussidi Audiovisivi, con il quale si offrì l'opportunità ai docenti di scegliere in piena libertà da un campionario di strumenti cinematografici adattabili alle diverse esigenze didattiche.
Il saggio si conclude con un capitolo che si propone di entrare criticamente nello specifico del rapporto tra cinema e ragazzi, in cui si evidenzia come l'editoria e/o gli addetti ai lavori avessero accettato con largo anticipo e senza pregiudizi, anche per ragioni di mercato, che il cinema potesse rappresentare un'occasione ricreativa quotidiana nella vita di bambini e ragazzi.
Emergono quindi le diverse prospettive attraverso le quali si è guardato all’infanzia, escludendo, tuttavia, di considerare l'aspetto ludico e gratuito dell’esperienza cinematografica quando questa può invece rivestire un ruolo formativo - conclude l'autore – "capace di superare i preconcetti, le teorie pedagogiche, le programmazioni didattiche, per diventare 'educatore' di emozioni e di crescita spirituale" (p. 365).
Riccamente corredato da citazioni e fonti, il volume si delinea come uno studio originale senz'altro utile alla riflessione storico-educativa e a chi desideri approfondire, più in generale, il complesso rapporto tra infanzia, narrazione filmica e intenzionalità pedagogica.