Genio e retorica di Aleksandr Solzenicyn: la sua utopia conservatrice nuoce ancora
di Valentina Parisi, il manifesto, 01.06.2025
Quando il 10 dicembre 1974 Aleksandr Solzenicyn prese la parola a Stoccolma per ritirare finalmente il Nobel per la letteratura che gli era stato assegnato quattro anni prima, esordì puntualizzando come già nel Gulag avrebbe voluto «gridare al mondo intero la propria pena». Tuttavia l’insensibilità manifestata dalle società occidentali verso le sofferenze dei cittadini sovietici lo costringeva a cambiare radicalmente il discorso «inizialmente concepito nelle gelide serate trascorse nel lager», trasformandolo anzitutto in una denuncia dell’«asservimento» dei suoi ascoltatori «alle idee progressiste», ovvero filosovietiche.
Questa tendenza a puntare il dito contro il proprio stesso uditorio sarebbe rimasta anche in futuro una costante di Solzenicyn oratore. Lo dimostra Una parola di verità, volumetto curato da Marco Sabbatini per la collana «Prolusioni» delle Edizioni Università di Macerata (pp. 218, euro 10,45) che raccoglie discorsi pronunciati in luoghi e occasioni diversissimi, da quello tenuto a Harvard nel 1978 (che valse allo scrittore le reazioni indignate di buona parte dell’opinione pubblica americana) alla conferenza «La degenerazione dell’umanesimo» del 2000, passando per l’intervento alla Duma di Stato della Federazione Russa letto nell’ottobre 1994.
Immutata nel tempo rimane l’attitudine di Solzenicyn a difendere con tenacia la validità della sua «utopia conservatrice», prescindendo dai probabili convincimenti dell’ascoltatore e insorgendo contro qualsiasi forma di pragmatismo politico. Da qui, per esempio, l’opposizione al processo di distensione intrapreso dagli Stati Uniti nei confronti dell’Unione Sovietica, la critica all’«affrettata capitolazione in Vietnam» di Nixon e Kissinger e la dura requisitoria contro l’interpretazione «legalistica» dell’esistenza a suo dire sovrana in Occidente...
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