"Diritti dei lavoratori, giustizia sociale, critica verso la casta politica e gli esponenti dei partiti: Filippo Corridoni è figura da studiare e scoprire", di Luca Lezzi, L'Intellettuale Dissidente, 23 dicembre 2017, http://www.lintellettualedissidente.it/storia/pensiero-di-filippo-corridoni/
A partire dal 2015 fino ad oggi ha avuto inizio una riscoperta del pensiero, del lascito e della vita di Filippo Corridoni: uno dei maggiori esponenti del sindacalismo rivoluzionario italiano. L’occasione ci viene fornita stavolta dalla pubblicazione “Una politica in crisi. Filippo Corridoni e l’Italia del ‘900” a cura del professore Angelo Ventrone per le Edizioni Università di Macerata che nasce a partire dagli atti dell’omonimo convegno tenuto in occasione del centenario dalla morte del leader sindacale nella sua città natale nelle Marche; quella Pausula poi ribattezzata Corridonia dal fascismo e che mantiene intatto nome e ricordo del suo cittadino più illustre.
Il testo si presenta suddiviso in sette capitoli, ognuno dei quali analizza nel dettaglio il rapporto di Corridoni con un luogo (la città natale, la Parma dello sciopero agrario del 1908 e la Milano in cui a più riprese diede vita alla sua instancabile attività sindacalista) o con una delle persone a cui fu più legato (la compagna di lotta Maria Rygier e il fraterno amico, anch’egli fra i maggiori esponenti del socialismo rivoluzionario, Alceste De Ambris). L’unica mancanza risulta forse l’aver lasciato a pochi cenni il conflittuale rapporto del giovane marchigiano con il futuro duce del fascismo Benito Mussolini con cui Corridoni divise il palco durante le radiose giornate del maggio interventista del 1915.
Nel ripercorrere la breve ma intensa vita di Filippo Corridoni emergono chiare le visioni anticipatrici negli scritti di quello che fu, comunque, più un attivista che un teorico. Non è un caso, però, se dopo la Prima Guerra Mondiale e l’enorme perdita, in termini numerici e non solo, di volontari mandati al fronte, tra cui lo stesso Corridoni, il sindacalismo rivoluzionario non fu più in grado di riproporsi come blocco monolitico ma andò a contaminare le esperienze politiche negli anni seguenti dalla Costituzione della Reggenza del Carnaro nella Fiume dannunziana alla politica sociale del ventennio fascista. La volontà degli autori è quella di soffermarsi sul contesto per comprenderne le similitudini con l’Italia odierna, nella quale sempre meno persone si riconoscono in quei corpi intermedi (partiti e sindacati su tutti) che sono in piena apnea e danno sempre meno risposte a chi si fa portavoce delle istanze sui diritti sociali che continuano a venir meno nel nostro Paese e in tutte le democrazie occidentali.
L’antipolitica di inizio Novecento si poneva in contrasto con chi una volta, giunto agli scranni parlamentari, si era subito imborghesito nell’animo e nel tenore di vita, appiattendosi proprio al pari di coloro che riteneva nemici nella lotta di classe lungamente professata. Non è un caso se il sindacalismo rivoluzionario aveva fatto della lotta interna a partito e sindacato con la corrente riformista il suo punto nevralgico, consapevole che il Partito Socialista Italiano aveva già riposto in soffitta la lotta a borghesi, imprenditori e latifondisti. Parole d’ordine, modalità di lotta e programma politico divergevano già ampiamente tra la visione repubblicana, laica, liberoscambista e antistatale dei rivoluzionari e quella di compromesso dei riformisti.
Tra i testi lasciatici da Corridoni, fra i quali figurano molti articoli di giornale e le relazioni nei congressi sindacali, a farla da padrone è “Sindacalismo e repubblica”, vero e proprio testamento politico-sindacale pubblicato postumo nel 1921 dall’amico Alceste De Ambris a Parma e scritto durante l’ultimo periodo di detenzione nell’aprile 1915. Insieme al maggiore dei fratelli De Ambris, l’agitatore marchigiano fu artefice anche del decisivo passaggio dal neutralismo all’interventismo nell’ottica di colpire quegli imperi centrali capisaldi dei principi feudali e, per questo, nemici giurati del socialismo. L’ingresso nella Grande Guerra fu inteso anche come la prosecuzione del lascito risorgimentale al fine di completare l’unificazione territoriale della Patria intrapresa da Mazzini e Garibaldi. Quella guerra assunse, infatti, di diritto l’appellativo di Quarta Guerra d’Indipendenza per tutti gli italiani per via del significato che seppe trasmetterle quella minoranza attiva in cui si coagularono diverse correnti politiche della nazione.
Una minoranza frastagliata che, però, seppe fondersi dinnanzi ad un obiettivo comune. Non è un caso se in molti dei passaggi corridoniani si evincono punti in comune con altre correnti di pensiero. Da quelli con il nazionalismo guidato da Enrico Corradini all’ideale dell’uomo nuovo e all’esaltazione della violenza che abbracciarono anche i futuristi. L’antipolitica, l’appello ai “dormienti”, l’inadeguatezza della classe politica a guidare il rapido sviluppo della penisola furono i temi cari ad altre menti illustri del tempo come Giuseppe Prezzolini e Giovanni Papini che definirono già Montecitorio come “il più grave dei pesi italiani”. Sempre in ottica antiparlamentare la polemica dei sindacalisti rivoluzionari fece propria la visione della scuola elitista di Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto che nel 1901 aveva definito il Parlamento un club di affaristi e politicanti senza scrupoli e i partiti che vi operavano delle cricche, delle camorre prive di ogni idea.
In definitiva l’agile volumetto (127 pagine alle quali si aggiunge una preziosa appendice fotografica dei monumenti eretti a Corridoni in Italia e alcune foto che lo ritraggono durante i comizi di piazza) si presenta come una lettura rivolta agli studiosi e agli appassionati della tematica, ricca di note e rimandi bibliografici. Grande merito va dato agli autori per la scelta di non dedicare spazio alcuno alla sterile diatriba, fatta con i “se” e con i “ma”, riguardante l’ipotetico futuro di Filippo Corridoni nell’Italia del ventennio fascista causa principale dell’oblio in cui troppo a lungo è stato relegato il pensiero del massimo esponente del sindacalismo rivoluzionario italiano. Una damnatio memoriae dovuta ai riconoscimenti e all’importanza che ne diedero il fascismo e Benito Mussolini in persona che vollero identificarlo con la figura del protofascista e all’incapacità, a partire dal secondo dopoguerra, del mondo sindacale, con l’unica eccezione di Giuseppe Di Vittorio, di ricordarne a dovere l’importanza fondamentale nei passaggi teorici e pratici di crescita di chi tutelò le istanze del proletariato.
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