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Vita felice umana

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  • Autore Fermani Arianna
  • Codice ISBN (print) 88-6056-096-9
  • Numero pagine 378
  • Formato 14,5x20,5
  • Anno 2006
  • Editore eum
Humanitas
Eum Redazione

di Lucia Palpacelli, n.62 maggio giugno 2007

«La felicità è qualcosa di profondamente serio; e probabilmente il compito più lungo e più difficile da realizzare che la vita ci pone di fronte» (p. 331). In queste parole si misurano tutta la novità e lo spessore filosofico della riflessione teoretica intorno alla felicità che Arianna Fermani (giovane autrice - in ambito storico-filosofico - di diversi articoli dedicati soprattutto all'etica aristotelica e allo stesso tema della felicità: Vita felice umana. In dialogo con Platone e Aristotele, in «La società degli individui» 20/2[2004], pp. 31 -44; Aristotele e la felicità. Flessibilità metodo- logica e versatilità esistenziale, in M. Migliori - A. Fermani [a cura di], Platone e Aristotele. Dialettica e logica, Morcelliana, Brescia 2008, pp. 107-149) conduce in questo libro, riscoprendo il senso antico, ma del tutto attuale - e, sotto certi aspetti, sorprendente -, di una felicità che non è l'esaltazione di un attimo, ma si configura come la costruzione di tutta una vita.
Si può a buon diritto parlare di un viaggio di riscoperta e di riattualizzazione che va alle radici stesse del pensiero filosofico intorno alla felicita, perché gli interlocutori privilegiati di questo percorso - che corre trasversalmente nelle diverse epoche del pensiero per cogliere le tante voci che, in modo diverso, hanno affrontato questo tema - sono Platone e Aristotele (come e indicato dal sottotitolo del libro). Con questi autori la Fermani instaura un proficuo e ricco dialogo che costituisce il fil rouge di questo itinerario e guida il lettore a riconoscerne lo sfondo e l'orizzonte ultimo nel «concetto di felicità come conquista» (p. 338), ottenuta non senza fatica, ma per questo duratura e veramente umana, cioè a misura d'uomo.
L'autrice apre la sua indagine sul duplice binario di una «domanda originaria», che è domanda di felicità e sulIa felicità (p. 25), osservando che, se la domanda di felicita è universale (è una tensione che ogni essere umano conosce), capire che cosa sia la felicita non e così semplice come potrebbe sembrare. Infatti, i modi in cui la felicità si declina e si realizza risultano molteplici: «tanti quanti la vita umana» (p. 32). Di fronte a questo orizzonte così variegato, l'intento della Fermani è appunto quello di offrire (con l'aiuto determinante degli schemi concettuali forniti dal pensiero antico) una sorta di mappa per rintracciare, nelle tante risposte possibili, alcuni criteri oggettivi di valutazione della felicità (p. 33).
E’ interessante, dunque, ripercorrere le tappe di questo affascinante viaggio, che - in forza di uno stile di scrittura agile e divulgativo - "fluisce" libera e piacevole (proprio come l'autrice immagina dovrebbe fluire la vita felice, p. 66) ed è caratterizzato da un'argomentazione solida che, in un crescendo, di capitolo in capitolo, porta a scoprire questo concetto di felicità umana attraverso l'analisi di rilevanti snodi concettuali e il confronto con alcune "figure-chiave" legate intrinsecamente alla vita e alla felicità. Da una tale riflessione, nella quale molte concezioni comunemente accettate si ribaltano assumendo nuove prospettive, emergono infatti gli elementi essenziali per la costruzione della felicità che duri una vita intera.
La prima figura che l'Autrice pone in tensione con la felicità è quella del dolore, per mostrare come due concetti opposti possano ricomporsi in una lettura che fa del dolore l'orizzonte entro cui si gioca l'esistenza e in cui la felicità stessa dà prova di sé. Infatti, il dolore «ci permette di vedere le cose con occhi diversi, di dare un diverso peso agli eventi della vita, di scoprire modalità diverse dell'esistere, vie nuove, possibilità mai sfruttate. In una parola di reinventarci la vita» (p. 98).
Analogamente, nel terzo capitolo, l'autrice rivisita il concetto di piacere nei suoi molteplici snodi e nelle sue possibili intersecazioni con le figure (anch'esse molteplici) del desiderio. In tale quadro il piacere viene reinterpretato come un "coronamento" della vita buona e felice, se si tratta di un piacere accompagnato dal dominio di sé e dalla misura, elementi questi che garantiscono agli uomini di non diventare schiavi dei propri istinti, cosa che è propria delle bestie (come sottolineano concordemente Platone e Aristotele).
A questa conclusione - dalla quale emerge con evidenza l'importanza della misura in una vita che voglia dirsi veramente umana e felice - si lega, in modo del tutto naturale, il terzo "incontro" che è quello tra felicità e virtù. Per evitare di bloccarsi sul nostro concetto di virtù, che porta con se l'idea del sacrificio e della rinuncia e che quindi sembra aver poco a che fare con la felicità, l'autrice ritorna al concetto greco di areté per riscoprire una virtù che è realizzazione, eccellenza, forza, e che, come tale, tende quasi a coincidere con la felicità. Infatti, si può affermare che per il pensiero greco «la felicità stessa è esercizio di virtù» (p. 158), perché, in tutte le sue accezioni, essa permette di dare misura e armonia alla vita e risulta essere dunque elemento essenziale di quella felicità duratura che è «felicità come vita nella sua interezza [...] una felicità meno visibile, certo, ma più profonda e meno caduca» della felicità intensa, ma dissoluta e incostante (p. 192), come insegna Platone nel Gorgia contrapponendo due modelli di vita opposti: quello misurato e basato sull'autocontrollo di Socrate e quello teso all'eccesso e ai piaceri di Callicle.
Ecco allora che la misura e la virtù acquistano un ruolo determinante in questa concezione della felicità umana intesa come equilibrio e armonia da realizzare per tutta la vita e in ogni occasione che la vita ci pone di fronte.
La consapevolezza, tipicamente aristotelica, che, comunque, la felicità propriamente umana non si esaurisce nella virtù conduce l'autrice ad analizzare l'ultimo nesso che è quello tra felicità e beni esteriori. Il senso comune ha sempre associato la felicità ai beni, ma anche il pensiero antico (con un accordo tra Platone e Aristotele che c'e, nonostante le apparenze, anche in questo caso) riconosceva l'importanza dei beni esteriori per poter essere felici. Certamente, però, pur essendo una conditio sine qua non della felicità, essi non sono sufficienti a garantire la felicità, perché anche chi ha molti beni può essere infelice.
La riflessione che si sviluppa da questo nodo concettuale conduce il lettore al cuore della trattazione, perché consente di riscoprire e di riguadagnare dalle voci antiche di Platone e di Aristotele l'idea di una felicità che, in quanto orizzonte armonico - paragonabile metaforicamente a una sinfonia (p. 197) - si configura come principio e fine di ogni bene «proprio perché é ciò da cui ogni bene riceve senso» (p. 219). Dunque, è ciò cui si mira, ma è anche ciò che deve esserci fin dall'inizio (appunto in senso proprio «principio») perché tutti gli altri elementi che contribuiscono ad essa, acquistino senso. Per questo, una vita armonica e, dunque felice, può essere descritta e spiegata come un «Tutto ordinato» (p. 200), di cui i tanti elementi visti finora sono parti. Come tale, infatti, è «un punto di arrivo, una meta, ma anche un punto di partenza, una logica che si innesca ancor prima che il processo abbia inizio, una totalità che preesiste alle parti di cui si compone e senza cui le parti stesse non si darebbero come tali» (p. 220) e perderebbero senso.
In questo orizzonte di felicità come arché e télos (principio e fine) é chiaro che assume, dunque, un ruolo centrale l'uso che si fa dei beni che si hanno a disposizione, appunto perché «la felicità non può esaurirsi in uno o più oggetti ma è qualcosa che è al di là degli stessi, esattamente come il tutto è superiore alle parti e non si riduce alla somma di esse» (p. 254). Bisogna dunque saper giocare la propria partita con saggezza (phrònesis per Platone e Aristotele) per poter costruire la propria felicità, perché avere buone carte e conoscere le regole non basta (anche se è indispensabile) a garantire la vittoria.
Il tema dell' utilizzo e dell'adeguata gestione e valorizzazione delle risorse costituisce un logico tramite per il passaggio alla seconda parte della ricerca, quella "strategica", appunto, che si apre con la riflessione su quella dotazione di caratteristiche individuali, a partire dalle quali un soggetto può e deve tentare di "inventare" il proprio percorso vitale. In questo contesto assume un ruolo centrale proprio la saggezza che Aristotele indica come l'architetto della vita buona, perche «è alla saggezza che spetta il compito di fare della vita una totalità organica di parti, una totalità dotata di senso e non sprazzi di vita frammentari e discontinui (p. 306). In questa accezione, allora, la felicità si definisce davvero, secondo l'indicazione dello Stagirita, come «un'attività dell'anima secondo virtù» (Etica Nicomachea 1, 6, 1098 a 15-16) nella quale, però, il raggiungimento dell'obiettivo non comporta un punto di arresto o una fine; al contrario, vale il principio secondo il quale «il bersaglio funge da orientamento per l'arciere, è ciò che gli permette di correggere il tiro, di impostarlo nella maniera corretta e, soprattutto, ciò che si da sempre nuovamente da rimirare, ciò che costantemente si offre all'arciere per permettergli di perfezionare la mira» (p. 320). Un'attività perfetta, dunque, che non si esaurisce, ma cresce e, come un lievito, fa crescere la vita stessa in una pienezza che si conquista con fatica (che chiede forza, dominio di sé, misura, come si è visto) e che è dunque di gran lunga lontana dal concetto di una felicità che non comporti sforzo o consapevolezza, ma si configura, appunto, come quella felicità davvero umana che l’uomo può costruire in questa vita.
Un tale dialogo con gli antichi - che si è dimostrato così utile e attuale - assume anche un interesse particolare dal punto di vista della storia della filosofia (anche se si tratta certo di un aspetto secondario in una riflessione eminentemente teoretica). Infatti, nel corso della sua indagine, la Fermani non manca di evidenziare il nesso fra la concezione platonica della vita felice umana e quella aristotelica, opponendosi consapevolmente alla lettura tradizionale che considera spesso le due posizioni come diametralmente opposte. Infatti, solitamente l'una viene letta nella chiave di una morale ascetica, mentre l'altra sarebbe una morale più concreta e più vicina all’uomo. Il costante e profondo confronto tra i testi platonici e aristotelici suggerisce, invece, di ripensare e riarticolare tale rapporto riscoprendo molteplici punti di tangenza e indicando una via di ricerca non solo percorribile, ma fruttuosa dal punto di vista storico-filosofico, come la Fermani ha già dimostrato in altri scritti (ad esempio, II concetto di limite nella filosofia antica, «La società degli individui» 23/2 [2005], pp. 5-17).

 
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