Roberto Gatti, «Rivista di storia della filosofia», 75 (2020), pp. 774-777.
Segnaliamo ampi brani della vasta recensione che Gatti ha dedicato al libro. La recensione completa è reperibile al sito www.francoangeli.it.
Il merito principale delle ricerche che Omero Proietti conduce da anni su Uriel Da Costa (Porto 1583-Amsterdam 1640) consiste nel restituire spessore storico a uno dei protagonisti della cultura marrana dell’età moderna attraverso un’indagine sui testi disponibili, la loro trasmissione e dimensione linguistica, le fonti filosofiche, teologiche e letterarie impiegate. In questo modo non viene delineata soltanto una «fenomenologia del marranesimo», così come accadeva nel fortunato libro di Yirmiyahu Yovel (Spinoza and Other Heretics. The Marrano of Reason, Princeton UP, New Jersey 1989). Il libro di Yovel aveva introdotto indiscutibilmente prospettive inedite e feconde nella critica spinoziana, applicandole a una sorta di scavo genealogico della modernità nel secondo volume del suo dittico, intitolato The Adventures of lmmanence […]. Ricerche di questo tipo recano però con sé il pericolo di trasformare il marranesimo in una sorta di essenza ideal-tipica, facendo passare in secondo piano un’analisi sia dei testi in cui si sono espressi i protagonisti storici di quella stagione […], sia delle fonti su cui questa stessa esperienza si è andata definendo. Quei testi e le loro fonti, infatti, presentano sovente una storia complessa […]: un’attenta ricostruzione (come quella condotta da Proietti nel corso dei suoi lavori) […] finisce con il suggerire motivi molteplici di cautela. Per quel che riguarda proprio Da Costa, alcune sue opere sono andate perdute nella loro versione originale e sono state tramandate all’interno di lavori rabbinici che hanno inteso confutarle (come nel caso del Magen we-tzinnah di Leone da Modena, che trascrive polemicamente le Propostas contra a Tradiçaõ di Uriel). Altre opere, come il Qol sakhal, sono state sovente attribuite, anziché al loro autore, proprio a un oppositore (ancora una volta Leone da Modena). Infine, un lavoro fondamentale di Da Costa, l’Exame das tradiçoẽs phariseas, è stato ritrovato solo circa trent’anni fa. In altre parole, la ricostruzione dell’esperienza marrana si presenta carica di insidie, analoghe per certi versi a quelle con cui si confrontano gli studiosi del pensiero arabo-ebraico medievale nell’analisi di testi e problemi significativi di quel periodo storico. Queste insidie della letteratura dei e sui marrani comportano la necessità che anche lavori ormai classici debbano essere rivisti e aggiornati, come nel caso dell’edizione dei testi di Uriel curata da Carl Gebhardt nel 1922.
Emblematica, da questo punto di vista, è l’analisi che Proietti ha dedicato alla presunta autobiografia di Da Costa in uno studio del 2005 (Uriel Da Costa e l’«Exemplar humanae vitae», Quodlibet, Macerata 2005), dove presentava tutta una serie di argomentazioni (relative alla storia del testo e di natura linguistica) volte a mostrare come questo scritto sia in realtà un falso […]. Attraverso una linea argomentativa serrata e sempre documentata, Proietti si schierava, sulla base dei dati emersi proprio dal recupero dell’Exame dacostiano, a favore della tesi della totale falsità dell’Exemplar, andando al di là della soluzione di compromesso elaborata ad es. da Israel S. Révah e condivisa anche da Yovel, secondo cui solo alcune parti dell’opera sarebbero state fabbricate dal suo primo editore cristiano. Il lavoro più significativo di Proietti resta però l’edizione critica, con traduzione e commento, del testo fondamentale di Uriel (Exame das tradiçoẽs phariseas, Eum, Macerata 2014). Come si diceva, quest’opera è stata ritrovata soltanto all’inizio degli anni '90 e pubblicata nel 1993 da Herman P. Salomon e Isaac Sassoon in un’edizione facsimile. Nell’Exame Da Costa non soltanto risponde alle argomentazioni che contro di lui erano state avanzate ad Amburgo da Semuel da Silva in relazione alla tesi della mortalità dell’anima, ma riprende le posizioni antifarisee già formulate in altri suoi lavori. L’opera è infatti divisa in due parti: nella prima, Uriel riprende i temi della sua polemica contro la Legge orale della tradizione farisea (elaborate in precedenza nelle sue Propostas contra a Tradiçaõ). La Legge scritta di Mosé è del tutto autosufficiente e non necessita dell’interpretazione che ne hanno dato «i Farisei» (e cioè la corrente destinata a diventare maggioritaria nell’ebraismo e ad esprimersi nella codificazione del Talmud). Il testo del Pentateuco andrebbe dunque compreso, come poi scriverà anche Spinoza nel Tractatus, sulla base di un’interpretazione tutta interna ad esso. Per Uriel, l’affermazione della legittimità di un’interpretazione orale, trasmessa addirittura da Dio contestualmente alla “dettatura” a Mosé del codice scritto, sarebbe il risultato di un’operazione tutta politica con cui «la setta dei Farisei» si è imposta su quella dei Sadducei. La stessa catena della tradizione conterrebbe incongruenze storiche, frutto di una manipolazione tendenziosa operata sempre dai Farisei (ripresa di una linea argomentativa risalente a Flavio Giuseppe). Nella Parte seconda dell’Exame, Uriel non solo risponde alle critiche […], ma si rifà (direttamente o indirettamente) anche a tutta una serie di filosofi, teologi e fonti letterarie, intrecciando un dialogo particolarmente complesso con autori antichi e contemporanei. Sulla base di quest’opera, Proietti ricostruiva ex novo […] alcuni snodi fondamentali della biografia di Da Costa […]. Particolarmente preziosa […] era la sezione intitolata Cronologia e temi del corpus dacostiano, in cui Proietti passava in rassegna i dati utili a ricostruire tutte le opere di Da Costa. Inoltre, soprattutto alla luce della Questione che chiude l’Exame - in cui si mostra che l’universo è eterno a parte post sulla base sia della Torah scritta sia di argomentazioni filosofiche -, lo studioso proponeva di inserire il pensatore portoghese in una linea di averroismo filosofico, tipico degli esiti più radicali del pensiero ebraico medievale in terra di Spagna e di Provenza. Questo averroismo costituirebbe poi una delle fonti del pensiero spinoziano.
Il lavoro più recente di Proietti (Variazioni dacostiane) approfondisce ulteriormente lo studio sulle fonti dell’Exame. Questo lavoro è scandito in tre parti: nella prima (intitolata Intrecci di fonti dell'Exame dacostiano), viene rilevata la presenza di consonanze linguistiche e tematiche con il Somnium Scipionis ciceroniano, la Bibbia di Ferrara (e cioè la traduzione ladino-spagnola che Da Costa ha sempre presente nelle sue citazioni di passi biblici), le opere del neoconvertito Abner di Burgos (Alfonso di Valladolid) e il letterato portoghese Camões. Ne emerge la ricchezza e la complessità della scrittura dacostiana che, nel rispondere al suo avversario, non si perita di ricorrere a tutta una serie di rimandi intertestuali (sia filosofico-teologici sia letterari), spesso giocati sull’utilizzo di termini scelti dall’autore proprio in virtù della particolare risonanza filosofica e letteraria che essi possiedono.
La seconda parte del lavoro di Proietti (Fonti teologiche e filosofiche) è dedicata in particolare all’analisi del gioco molto ampio di rimandi a fonti filosofiche e teologiche, istituito da Uriel in relazione al tema della mortalità dell'anima. La Parte seconda dell’Exame, infatti, delinea una sorta di analitica della finitezza umana. La Torah scritta presenterebbe una visione dell'anima come irrimediabilmente legata al corpo e al sangue […] e trasmessa attraverso i genitori dell'individuo, in una sorta di traducianismo che costituirebbe la ripresa del detto, tante volte utilizzato dagli averroisti medievali, secondo cui i corpi celesti e il seme del genitore bastano per la generazione di un essere vivente. La stessa anima razionale sarebbe destinata a morire e «l’intendimento non procura l’immortalità». Secondo Proietti, Da Costa impiega a questo proposito medici e filosofi antichi e tardo-antichi (il Panezio ciceroniano e Galeno, con la loro ripresa del tema dell’anima come armonia del corpo) e filosofi moderni (Pomponazzi), ma si rifà anche, in senso polemico, a teologi come Origene, al Calvino della Psychopannychia (in cui si confutava la tesi di coloro «qui animas post mortem usque ad ultimum iudicium dormire putant», a favore della sostanzialità dell’anima umana, creata come immortale direttamente da Dio), alle posizioni dei sociniani. L’obiettivo polemico costante di Da Costa sarebbe dunque costituito dalle tesi antitraducianiste, nella duplice veste che esse hanno assunto (sia nella loro versione creazionistica sia in quella, presente in Origene e in alcuni passi del Talmud, della preesistenza delle anime impegnate nei «circoli», gilgulim, della reincarnazione).
La terza parte del lavoro di Proietti (Fonti storico-letterarie e linguistiche) mostra, ancora una volta, la complessità dei riferimenti dell’opera dacostiana, che costringe il lettore contemporaneo a un vero e proprio tour de force esegetico. Si veda come esempio il paragrafo dello studio, intitolato Alma vermelha. Da Crizia a Virgilio (pp. 285-304). In esso lo studioso segue i rimandi presenti in una sezione dell’Exame nella quale Uriel, al fine di suffragare la tesi secondo cui l’anima è sangue, richiama esplicitamente le posizioni di Crizia (che, per mostrare come la sensibilità dell’essere vivente fosse legata alla circolazione del sangue, «adduceva come prova il fatto che sono prive di sensibilità le parti degli animali come i denti, le unghie e i capelli, che mancano di sangue») e le posizioni di Origene (che difendeva Crizia dall’obiezione che gli era stata mossa: persino negli animali privi di sangue ma dotati di sensibilità, come le vespe e le api, «non manca un liquido della natura del sangue»), per poi concludere con una citazione dall’Eneide di Virgilio («purpuream vomit ille animam» ). Proietti mostra, a questo proposito, come la citazione di questi testi da parte di Da Costa vada oltre una semplice ripresa di un passo del de anima dei Conimbricenses […] e costituisca, in realtà, una ripresa autonoma di una particolare tradizione interpretativa della poesia virgiliana.
Nel complesso, questo lavoro di Proietti fornisce l’esempio di un’interpretazione minuziosa dell’opera dacostiana, volta sia a rintracciare le molteplici risonanze (filosofiche e letterarie) suscitate dall’impiego anche solo di un termine del suo lessico portoghese, sia a identificare con precisione le edizioni impiegate nelle citazioni. A quest’ultimo proposito, si veda l’utilizzo dacostiano dei versi del Romancero General: «Mortale mi generò mia madre / e dunque potrei morire tra poco / Ciò che il cielo concesse per grazia / non esigere per diritto». Questi versi potrebbero figurare come una sorta di epigrafe ideale dell’intero Exame. Ancora, lo studio di Proietti si muove intorno a due centri: il passato filosofico e teologico da cui proviene Uriel, ma anche il futuro che la sua opera inaugura (si veda ad es. la ripresa di temi dacostiani documentabile nel Theophrastus redivivus).
Vorremmo a questo punto avanzare un'osservazione conclusiva […]. Rispetto alle precedenti ricerche dello studioso, in quest'ultima ci pare lasciata un po' in ombra la linea dell’averroismo radicale di origine medievale che costituirebbe il background di Da Costa (l’unica eccezione è costituita dall’analisi riservate da Proietti alla figura di Abner di Burgos, che di quella linea è stato insieme epitomatore e critico). Si tratta di un’indicazione complessiva di ricerca il cui approfondimento merita invece di essere ripreso e accolto nella sua feconda sollecitazione. Si pensi, da questo punto di vista, al Capitolo 6 della Parte seconda dell’Exame che, tramite la sua negazione della tesi secondo cui «l’intendimento procura l’immortalità», sembra invece scardinare proprio uno dei cardini del paradigma filosofico dell’averroismo e cioè quello della «felicità mentale» o della conoscenza come via laica di salvezza. Detto in altri termini: in che misura ibn Rushd e i suoi interpreti ebrei medievali (ma poi anche Spinoza) avrebbero potuto sottoscrivere questa “rivoluzionaria” negazione di Da Costa? Questo interrogativo appare tanto più significativo, in quanto nell’opera dell’autore portoghese (come poi sarà anche in Spinoza) risulta assente ogni traccia di Intelletto agente e Intelletto materiale, che costituiscono invece uno degli assi portanti del paradigma averroistico e permettono di elaborare proprio una teoria delI’“intendimento immortale”. Tracce di averroismo, invece, si ritrovano indubbiamente nella nozione dacostiana di natura come insieme di estatutos inviolabili stabiliti dalla divinità. E a questo proposito sarà sufficiente anche soltanto richiamare la definizione che di Dio dava uno dei più importanti averroisti del pensiero ebraico medievale della prima metà del XIV sec. in area provenzale (Lewi ben Gershom o Gersonide) quando, riprendendo temi dell’Epitome e del Commento Medio alla Metafisica del maestro arabo, parlava della divinità nei termini della «legge degli enti, del loro ordine ed equilibrio».