Alessio Panichi, Temere più la forca che l’inferno. Alcune osservazioni a proposito di un recente volume su Uriel da Costa, «Bruniana & Campanelliana. Ricerche filosofiche e materiali storico-testuali», 23 (2017/1), pp. 257-264.
Segnaliamo le due pagine iniziali della vasta analisi che Panichi ha dedicato al libro. La recensione completa si può trovare nel sito: Fabrizio Serra editore, Pisa-Roma: http://www.libraweb.net/
1. La conoscenza del profilo biografico-intellettuale di un autore è l’esito di un processo che, lungi dal configurare un disegno prestabilito, vede la compresenza di due elementi apparentemente inconciliabili: la razionalità progettuale e la casualità. Se è vero, infatti, che l’attività storiografica dipende dalle ricerche pianificate e condotte dagli studiosi, dalla loro volontà di comprendere e far comprendere “uomini e cose” del passato; è altrettanto vero che i suoi risultati sono soggetti a eventi fortuiti, che spesso costringono a rivedere, se non addirittura ad abbandonare le interpretazioni consolidate. Non c’è dubbio che uno di questi eventi, forse il più rilevante o comunque il più desiderato dai ricercatori, sia il ritrovamento di scritti inediti e sconosciuti, per non parlare di quelli considerati perduti.
Un esempio significativo al riguardo è offerto dalla redazione originale, autografa e in volgare, dell’Atheismus triumphatus di Campanella, rinvenuta da Germana Ernst nella Biblioteca Apostolica Vaticana durante «un quieto pomeriggio di aprile», mentre era «intenta ad altri studi». Come noto, questa scoperta ha permesso di far luce sia sulla storia interna di un testo che riveste un’importanza fondamentale al fine di comprendere il pensiero dello Stilese sia sui rapporti, controversi e delicati, fra questo pensiero, il complesso della teologia cristiana e le autorità ecclesiastiche. Un altro esempio, ugualmente significativo, concerne un’opera che ha ben poco in comune con quella campanelliana, eccezion fatta per il valore di testimonianza storica circa le profonde tensioni che, nei primi decenni del Seicento, scuotevano le diverse comunità religiose. L’opera in questione è l’Exame das tradiçoẽs phariseas di Uriel da Costa.
Pubblicato nel 1624 ad Amsterdam, l’Exame è rimasto prigioniero dell’oblio per più di tre secoli e mezzo, cioè fino a quando, nel 1990, Herman Prins Salomon ne ha rivenuto una copia, posseduta dalla Royal Library di Copenhagen. Questo ritrovamento, seguito tre anni dopo dalla pubblicazione del facsimile dell’esemplare e della relativa traduzione inglese, ha posto gli studiosi di fronte alla necessità di ripensare complessivamente la vita e le opere di Da Costa, sgombrando il campo da vecchi pregiudizi e false attribuzioni.
Un contributo decisivo a quest’opera di ripensamento è stato offerto da Omero Proietti, al quale va il merito non solo di aver mostrato, con validi argomenti storici e filologici, la falsità dell’Exemplar humanae vitae, a lungo considerato come un autentico scritto autobiografico; ma anche di aver curato la prima traduzione italiana dell’Exame, corredata da un ricco apparato di note che ne mette in luce la complessa trama testuale e intertestuale, nonché da un ampio saggio introduttivo. Qui Proietti riprende e al contempo rielabora i contenuti di ricerche precedenti, mosso dal desiderio di conseguire un duplice obiettivo: «correggere radicalmente i dati biografici» emersi dall’Exemplar, soprattutto quelli relativi agli anni dal 1614 al 1623, durante i quali Da Costa visse ad Amburgo e non ad Amsterdam, dove si trasferì solo «a partire dal luglio 1623»; «ristabilire un corpus più autentico delle opere » dacostiane – corpus che, secondo Proietti, comprende anche il Qol sakhal, opera antitalmudica tradizionalmente attribuita al rabbino veneziano Leone Modena (1).
Non mi è possibile, in questa sede, dipanare il filo del ragionamento che lo studioso tesse attingendo alla sua vasta conoscenza della letteratura critica e dei libri, sacri o profani, presenti sullo scrittoio di Da Costa. Mi preme invece richiamare l’attenzione su un recente volume, curato dallo stesso Proietti e da Giovanni Licata, che ambisce a inquadrare l’Exame in un contesto ampio e articolato, a leggerne cioè i contenuti alla luce di quei problemi che, fra medioevo ed età moderna, turbarono la coscienza europea. Il volume, intitolato Tradizione e illuminismo in Uriel da Costa. Fonti, temi, questioni dell’‘Exame das tradiçoẽs phariseas’, si compone di dodici saggi (2) e nasce dall’esperienza di un convegno internazionale, tenutosi il 29-30 settembre 2015 e organizzato dal Dipartimento di studi umanistici dell’Università di Macerata. Volendo affrontare la «ricchezza di temi e problemi storiografici» sollevati dall’Exame, il convegno ha visto la partecipazione di studiosi, italiani e stranieri, i cui ambiti di ricerca concernono più discipline e abbracciano un ampio arco cronologico. Tuttavia, come precisato da Proietti nell’Introduzione, il volume non è una semplice raccolta di atti, sia perché i relatori hanno rivisto, rielaborato e approfondito i propri interventi, sia perché comprende anche i contributi di coloro che non hanno preso parte ai lavori del convegno. Inoltre, esso non verte esclusivamente sull’opera dacostiana, dal momento che a tutti gli studiosi «era stato chiesto di affrontare il campo specialistico di loro competenza, senza stabilire un rapporto diretto con l’Exame dacostiano, in modo che emergessero, nella loro autonomia, i problemi e i temi comuni a Da Costa e alle sue fonti, e si tracciassero tradizioni, modi e stili di pensiero che non solo rimandassero alla formazione e al passato di Da Costa, ma preludessero a sviluppi e riprese di epoche successive» (Proietti, Introduzione, in Tradizione e illuminismo in Uriel da Costa, pp. 7-8).
Ebbene, fra questi temi e problemi ve n’è uno sul quale vorrei soffermare l’attenzione, adottando un metodo che prevede l’intreccio, o meglio ancora, il dialogo fra certi brani dell’Exame e alcuni saggi del volume. Si tratta di un tema che, pur nell’ovvia diversità delle declinazioni, attraversa tutta la cultura rinascimentale, a prescindere da divisioni confessionali e differenze culturali, costituendo un filo rosso che accomuna cattolici e protestanti, repubblicani e monarchici, utopisti e teorici della ragion di stato. Mi riferisco alla convinzione che il disciplinamento dei sudditi e la loro obbedienza ai sovrani, nella vita quotidiana e sui campi di battaglia, dipendano dalla religione, soprattutto dalla fede nell’immortalità dell’anima e nella retribuzione divina post mortem. A fondamento di questa convinzione risiedono, oltre all’assidua frequentazione di testi sacri e classici, due fattori diversi ma complementari. In primo luogo, il rifiuto del mutamento sociale e politico, autentico spauracchio degli autori cinque-seicenteschi, che, schierati a difesa di valori quali l’ordine e l’autorità, lo esorcizzano degradandolo al rango di prerogativa dei «peggiori arnesi della politica» e «degli strati più bassi della società» (R. Villari, Elogio della dissimulazione. La lotta politica nel Seicento, Roma-Bari, Laterza, 2003, pp. 8-11). In secondo luogo, la consapevolezza che l’attore politico, se vuole conservare gli assetti di potere esistenti, deve agire su due piani concomitanti: il piano della forza, che si concretizza nella repressione del dissenso, tanto più feroce quanto più il malcontento sfocia in rivolte, ribellioni e congiure; il piano del consenso, il quale è facilmente ottenibile sfruttando a proprio vantaggio le passioni umane, in particolare quell’emozione che, meglio di altre, agevola o inibisce l’azione, ovvero la paura. I lavori, ormai classici, di Jean Delumeau hanno mostrato che l’Europa del tempo è scossa da continui fremiti di paura, la cui origine è però troppo complessa per poter essere ricondotta alla sola matrice religiosa. Ciò non toglie che la maggior parte dei suoi abitanti, imbevuti di religione, siano realmente atterriti dalla prospettiva di subire la punizione divina una volta morti, dunque di scontare per i peccati terreni una pena terribile e terrificante: la dannazione eterna.
2. Esaminata in riferimento a un quadro concettuale del genere, la posizione di Da Costa presenta indubbi elementi di peculiarità, forgiati dal fuoco della polemica contro la tradizione talmudica e fariseo-cristiana, nonché dalla lettura degli scritti di Flavio Giuseppe. A questo proposito, credo sia opportuno, prima di esaminare tali elementi, compiere alcune precisazioni che aiutano a comprendere lo sfondo teorico su cui si staglia la riflessione dacostiana.
Innanzitutto, va detto che questa polemica si pone alla confluenza di due precise correnti di pensiero, che conferiscono all’Exame toni e contenuti radicali. Da un parte, il letteralismo biblico dei caraiti, che permette a Da Costa di muovere all’attacco della legge orale, denunciandone la falsità e l’estraneità rispetto alla Torah. Dall’altra parte, l’averroismo ebraico medievale e sefardita, di cui egli, al pari di non pochi «marrani iberici», fa proprie «alcune tesi centrali», destinate a emergere con particolare chiarezza nella questione finale dell’Exame. Ebbene, Da Costa, forte di questa confluenza, conduce una coerente battaglia culturale, tesa a persuadere i lettori del fatto che i farisei, diversamente dai sadducei, sono «uomini che si assunsero il compito, o la follia, di permutare parole, cambiare, torcere e interpretare alla rovescia le scritture, per confermare e rendere saldi i loro sogni confusi e i loro deliri». E non c’è dubbio che, fra questi deliri, il più diffuso e seducente sia quello che afferma l’immortalità dell’anima e la retribuzione ultraterrena […].
(1) O. Proietti, Saggio introduttivo, in U. da Costa, Exame das tradiçoẽs phariseas-Esame delle tradizioni farisee (1624), saggio introduttivo, testo critico, traduzione e commento a cura di O. Proietti, Macerata, Eum, 2014, pp. 11-27.
(2) Oltre ad un saggio di Proietti sulle fonti dell’Exame, il volume offre elementi utili per confrontare le posizioni dacostiane con quelle di Gersonide (Roberto Gatti); Jean de Jandun (Andrea Vella); l’averroismo sefardita medievale (Giovanni Licata); Elia del Medigo (Martin Engel); Pietro Pomponazzi (Guido Giglioni); Michele Serveto (Sara Barchiesi); Martin Seidel (Winfried Schröder); Baruch Spinoza (Filippo Mignini); la tradizione dell’impostura religiosa (Francesco Quatrini); Hermann Samuel Reimarus (Francesco Testa); Ernst Soner (Eleonora Travanti).
La recensione completa (pp. 257-264) si può trovare nel sito: Fabrizio Serra editore, Pisa-Roma: http://www.libraweb.net/