Di Simone Cattaneo, Tintas. Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 6 (2016), pp. 141-143. issn: 2240-5437, http://riviste.unimi.it/index.php/tintas
La traduzione italiana di El ladrón de libros y otras bibliomanías di primo acchito sembra rispondere, come sottolinea Pérez Vicente (p. 5), alla volontà di far conoscere nella nostra penisola Nuria Amat (Barcellona, 1950), una scrittrice molto apprezzata nei circoli intellettuali spagnoli e catalani in cui lettura e scrittura vengono considerate uno strano, ma assolutamente necessario, modo di vivere. Tale impressione viene rafforzata se si presta attenzione all’anno di uscita dell’originale (1988) e ai temi portanti: i libri e il rapporto tra la pagina stampata e i computer. È innegabile infatti che, in entrambi i casi, il quarto di secolo intercorso tra la stesura del testo e l’attualità sia stato testimone di importanti cambiamenti: nell’ambito dell’editoria si è assistito all’affermarsi di un mercato sempre più globale e incline alla promozione dei best-seller, mentre sul fronte informatico si sono sviluppati tecnologie e dispositivi (dall’ipertesto all’e-book, dai videogames ai romanzi interattivi online, ai tablet, ecc.) che hanno costretto a tornare a interrogarsi sull’atto del leggere o sul concetto di ‘narrazione’. Eppure, paradossalmente, è proprio in questi frangenti che gli scritti di Nuria Amat dimostrano una buona tenuta allo scorrere del tempo, imponendosi come riflessioni non ancora superate e offrendo ulteriore materiale a chi oggi cerca di orientarsi nel labirinto di un Minotauro metà lettore e metà cibernauta.
La struttura e l’impostazione dell’opera ne rivelano fin da subito la modernità perché i tasselli che la compongono attraversano di continuo le labili frontiere delle memorie personali, del racconto e del saggio, tessendo una rete testuale dalle molteplici ramificazioni, minata di continuo da quella specie di realtà virtuale o aumentata che è l’autofinzione. Anzi, è proprio il dipanarsi sottotraccia di una storia personale a dare coesione a Il ladro di libri e altre bibliomanie, in un doppio movimento esistenziale e culturale che, legato da un nodo gordiano, va dall’infanzia all’età adulta e dal libro cartaceo ai pixel, in un’intelligente reazione a catena tra tradizione e postmodernità, in cui un polo non esclude l’altro, ma, al contrario, si erge a punto di appoggio per una scrittura e una lettura sempre più consapevoli e profonde, anche perché alla base di questa tensione vi è l’impulso, prevalentemente umano, della creazione. Di fatto, un’altra possibile chiave di lettura, sulla falsariga della transizione dalla fanciullezza alla maturità, è quella che conduce dalla materialità dell’oggetto ‒ da una conoscenza legata quindi al senso del tatto ‒ alla volatilità delle parole, dei dati e della mente, sintomi di autonomia intellettuale, libertà e coscienza di sé.
L’ingegnosa boîte en-valise di Amat si apre con una sorta di diario o confessione, “Storia personale del libro”, in cui è appunto la dimensione empirica delle pagine a prevalere: è lì, nella fisicità della rilegatura, del formato, dove la piccola protagonista scova la porta di accesso a quello che sarà anche un amore platonico, costantemente associato però all’idea della presenza, all’azione di comprare, osservare o rubare, vissuta come l’impossessarsi di un talismano misterioso in grado di proteggere dalla timidezza o dall’assurdità del mondo: «Il libro è l’oggetto più appariscente; tra gli oggetti seduttori forse è il più puro dal momento che (parafrasando Baudrillard) alla memoria e alla ricchezza del pensiero accompagna il suo silenzio, la sua freddezza» (p. 25). I libri, in seguito, si moltiplicano, edificano barriere e diventano biblioteche da godersi e da spiare, sfingi che nascondono l’enigma del carattere dei loro proprietari, esseri insonni o assurdi che, su file di scaffali, provano a ricostruire il proprio volto.
Alla relazione tra scrittori o bibliomani e l’arte di accumulare volumi è dedicato il saggio “La biblioteca che altri chiamano l’universo”, una chiara strizzata d’occhio borgesiana in cui si spulcia tra le letture di autori noti (Petrarca, Proust, García Márquez, Juan Goytisolo, ecc.) alla ricerca dei testi mai letti o perduti: «È pertanto certo che un libro ‒ come annota Borges ‒ si legge per la memoria ma non è meno vero aggiungere che si legge anche per l’oblio, dal momento che è solo a partire dalla dimenticanza, e dallo sforzo e dall’impegno costante di dover ricorrere al ricordo, che possiamo sviluppare la nostra immaginazione e in fin dei conti la nostra attività intellettuale e creativa» (p. 55). Si riprende poi il filone vincolato al possesso di opere più o meno prestigiose, riportando alcuni aneddoti riguardo a follie o crimini commessi a causa dei libri, senza tralasciare il timore più grande di qualsiasi collezionista: il fuoco che divora carta e parole restituendo fumo e silenzio.
L’ossessione libresca ritorna in “Diagnosi della malattia, quattro casi di bibliomani e una bibliografia”, bizzarro polittico in cui spiccano i ritratti di infervorati bibliofili disposti a tutto pur di essere gli unici possessori di un’edizione dell’Eneide stampata da Aldo Pio Manunzio, oppure affetti dalla smania di aggiungere nuove acquisizioni a un catalogo pressoché sconfinato, o propensi a sacrificare ogni cosa pur di non dover rinunciare al conforto dei tomi sfogliati e accarezzati in stanze stipate all’inverosimile, incuranti dei limiti architettonici degli edifici o degli equilibri, ancor più precari, delle relazioni amorose.
Se fino ad ora però Amat ha ordito un canto ironico e appassionato al libro classico, dotato di un’aura quasi mitica, o comunque contraddistinto da un fascino ambiguo in continuo dialogo con la psicologia dell’individuo, ecco che a partire da “Lo scrittore informatizzato” introduce la componente tecnologica all’interno del mondo analogico delle lettere, svelando le contraddizioni e le possibilità inedite sorte dall’interazione tra il foglio bianco e lo schermo, dall’oscillare tra un supporto cartaceo e uno elettronico, sottolineando i pregi, i difetti e le potenzialità sia dell’uno che dell’altro, in un’auspicata convivenza pacifica determinata da un approccio cosciente e lungimirante. Al centro di questa ragnatela, di fatto, vi è l’essere umano, e l’autrice insiste a più riprese nel porre in evidenza che sono proprio le apparenti debolezze dell’uomo a garantirgli una netta superiorità rispetto ai computer, in particolare nel campo creativo, poiché grazie all’impossibilità di memorizzare ogni dettaglio riusciamo a far sedimentare in noi le opere altrui, ad assimilarle e a infondere in esse una vitalità che le rinnova e le potenzia: «La macchina non può dimenticare. In questo siamo ancora in vantaggio noi. Inoltre, l’impegno profuso nel memorizzare citazioni, passaggi e idee di altri autori può portarci a paralizzare la mente fino al punto di impedirle la creazione di qualcosa di nuovo, originale e peculiare. Quindi – per ciò che concerne il lavoro dello scrittore ‒ non è così rilevante memorizzare minuziosamente […] quanto il fatto di essere capaci ‒ attraverso la dimenticanza conseguente ad una lettura creativa ‒ di reinventare quelle o altre storie» (p. 108).
Da queste ‘premesse’ teoriche nasce il racconto “Il ladro di libri”, tra le cui righe riaffiorano, in un gioco metaletterario, memoria e citazione, giacché la narratrice rivela la sua tecnica di scrittura, confidando al lettore che tutte le sue opere sono soltanto mosaici di frasi espunte da altri testi, perché nessuno, nello stringere tra le dita una penna per narrare, può sottrarsi a questa specie di cleptomania inconscia. La sua carriera di programmatrice informatica la spingerà in seguito a portare all’estremo questo approccio meccanico, ideando un programma per confezionare automaticamente libri.
“Linguaggio assassino” è quasi un prolungamento ideale dell’esperimento anteriore perché, oltre a sfruttare un io narrante affine, la protagonista, Berenice, vuole vendicarsi di una delusione sentimentale e delle umiliazioni subite fondendo linguaggio informatico e linguaggio umano, con il solo fine di causare la morte dell’ex convivente.
Una volta sovrapposti i due poli attorno a cui ruota Il ladro di libri e altre bibliomanie, Amat chiosa quanto riportato con un graffiante “Discorso di ammissione all’Accademia di Scrittori Intelligenti e Macchine Superintelligenti, di Nuria Amat, e risposta da parte dell’accademica intelcomp 45, n° di serie 2184, di nome Conrad”, dove, pur apprezzando l’accesso libero all’informazione per mezzo di Internet, non rinuncia, appellandosi alle proprie conoscenze biblioteconomiche, a porre l’accento sull’importanza della metodologia nel consultare archivi e documenti all’interno di una massa di saperi ogni giorno più vasti e specifici, segnalando inoltre il rischio, da parte di scienziati e umanisti, di produrre elaborati di scarsa originalità, collages di quanto raccolto durante le ore di navigazione, molto simili ai testi sfornati in serie dal computer di “Il ladro di libri”, studi asettici e puntigliosi, privi di quell’oblio che è lo stigma della creatività, destinati a ingrossare il maremagnum di saggi e articoli in cui si fatica a separare i contributi di qualità dagli apporti mediocri, sostituendo così il tempo della lettura con quello della cernita. In un procedimento parodico e sottilmente caustico, la Macchina Superintelligente intelcomp 45, controbatte ogni singola argomentazione e prova una stoccata finale che dischiude il paradosso dell’impossibilità di comprendere a chi appartenga davvero l’ultima parola: «Il mio suggerimento sulla questione sarebbe quello di apprendere come apprendere ciò che ormai non deve fare uno scrittore di fronte a una tecnologia che lo sfida nei procedimenti più banali e meccanici della scrittura» (p. 158). Si tratta, ovviamente, dell’ennesimo gioco di specchi concesso dall’estrema flessibilità della letteratura: il lettore ha tra le mani un libro cartaceo e sa benissimo che a muovere le fila della finzione può essere soltanto l’estro di Nuria Amat.