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Versi vissuti

Poesie (1975-1990)

Availability: disponibile

13,30 €

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“Nascere per caso
 nascere donna
 nascere povera
 nascere ebrea
 è troppo
 in una sola vita.”

Note sull'autrice
Edith Bruck è nata in Ungheria nel 1932. Nel 1944 viene deportata ad Auschwitz insieme ai genitori, a due fratelli e una sorella. Sopravvissuta ai campi di sterminio nazisti, dopo varie peregrinazioni in diversi paesi, tra i quali Israele, si stabilisce nel 1954 in Italia, adottandone la lingua. Nel 1959 pubblica il suo primo romanzo autobiografico Chi ti ama così, con il quale dà inizio alla carriera di scrittrice e alla lunga attività di testimone della Shoah. Seguono i racconti Andremo in città (Lerici, 1962), da cui il marito Nelo Risi trae il film omonimo, e oltre venti opere di narrativa e poesia, fra cui Le sacre nozze (Longanesi, 1969), Mio splendido disastro (Bompiani, 1979), Lettera alla madre (Garzanti, 1988), Nuda proprietà (Marsilio, 1993), L’attrice (Marsilio, 1995), Signora Auschwitz (Marsilio, 1999), Quanta stella c’è nel cielo (Garzanti, 2009), adattato per il cinema da Roberto Faenza, La donna dal cappotto verde (Garzanti, 2012) e La rondine sul termosifone (La nave di Teseo, 2017). È stata tradotta in molte lingue e ha ricevuto vari premi letterari, fra cui il ‘Rapallo Carige’ e il ‘Viareggio’. Ha scritto anche per il teatro, la televisione, la radio e il cinema e ha tradotto, fra gli altri, Attila József e Miklós Radnóti.

Indice
Michela Meschini, Rinascere nella parola. Prospettive critiche sulla poesia di Edith Bruck

Paolo Steffan, «In agonia in amore»

Nota ai testi

Il tatuaggio (1975)
Presentazione di Giovanni Raboni
Nota dell’Autrice
I
Nascita
Adozione
Infanzia
Amica sorella compagna nemica
Arrivo
Immagini omicide
L’uguaglianza padre!
Quel pensiero
Fratello mio
C’era una volta
Il prezzo di una patria
Va pure
II
Paralitica
Non fischi più nel bagno
Ti nascondi
Mi arrendo
Parliamo madre
Sorella Zahava
Non ho scampo
Sono il tuo prigioniero
Abbiamo perso
Ogni volta che esci di casa
Non sono la bambina
Se non ti preoccuperai di me
Quando mi accorgerò
I tuoi sbagli
Forse hai ragione tu
Quello che accade
Che venga
Guai a me
Posso fare l’amore
Non mi riconosco più
Sono umida terra
Se per esperienza
Cosa ci succede?
Ancora un passo poi
Nel mio nido solitario
Solo solo solo
Intorno a me
Non mi lamento più
Perché sarei sopravvissuta?
Sto rannicchiata
Ho attraversato
Ogni giorno
Vita
Nell’incavo degli occhi
Una volta
Mendicante d’affetti
Meglio tacere

In difesa del padre (1980)
In difesa del padre
Il tuo grembiule
Guardo la mia altra vita
A uno
C’è chi colleziona farfalle
Sembra che esisto
Sabato nessuno
Ascoltare se stessi
Ti rivedo nel tentativo
Dai rumori
Vieni
Madre pensavo al tuo sesso
Eravamo in otto
Ogni inizio è già la fine
C’è il mare
Spalmatemi d’olio di sesamo
Senza occhiali
La solitudine è profonda
Sulle palpebre
Nascere per caso
Che mi vengano pure malattie e sciagure
C’è il sole
Un corpo di donna
Conto i giorni
Mi mancano quel gesto dal cortile
Ancora c’è tempo
Ho imparato ad amarti
Io e te
Nominarti
Finalmente mi appartieni
La prima volta
Sono con me
Quando in piena notte
Se non fossero morti
Ho i sensi tiepidi
Vivere qui o altrove
Non ho più paura
Il potere non s’addice
Sono fragile
Crescono come selvaggi dicevi
Rileggere correggere
A occhi asciutti
So che c’è
Lascia che accarezzi i tuoi capelli radi
Tra le mie cose
Da anni
Ho sentito dei passi
Dammi la mano
I suoi ossicini mi commuovono
Tutto il peso
Mia madre era una santa
Con chi parlavi
Vorrei dire
Mi aggiro tra una folla nuova
Non importa per me
Lontano
Un meccanismo
Tra non molto
Nel sospiro di mia madre

Monologo (1990)
Ditemi
American express
L’ultima visita
Svendesi
Lentamente
Pensieri
Vivo?
Dicembre 1986
Moralità
Serie compleanno
Lo faccio per te
Avevi ragione
Col tempo
Ricordo di Ila
Incontro
Soliloquio
Nevrosi
Scommetterei
Ai miei gatti
Ninna nanna
Avanti
Preghiera
Vita!
Noi
Forse
Lo svago
I nuovi comandamenti
Anch’io
Impressione
Meditazione
Ho incontrato Dio
Il segno
Ininterrottamente
Taci
Assenza
Un giovedì
Tutti uguali

Nota dell’Autrice
Postfazione dell’Autrice a Monologo

Edith Bruck, Postfazione al volume

  • Codice ISBN (print) 978-88-6056-558-7
  • Codice ISSN (print) 2532-165X
  • Numero pagine 243
  • Formato 12X16,5
  • Anno 2018
  • Editore © 2018 eum edizioni università di macerata
La letteratura e noi
Eum Redazione

Il presente del passato. I Versi vissuti di Edith Bruck, di Fabio Magro, La letteratura e noi

Nata nel 1932 in un villaggio ungherese ai confini dell’Ucraina da una famiglia di origini ebraiche, Edith Bruck viene deportata nel 1944 prima nel ghetto del capoluogo e poi nei campi di Auschwitz, Dachau, Bergen-Belsen, dove perde i genitori e un fratello. Sopravvissuta alla deportazione, dopo anni di pellegrinaggio in Europa e il tentativo non riuscito di trasferirsi in Israele, si stabilisce in Italia. Nel 1959 pubblica Chi ti ama così, in cui racconta l’infanzia poverissima e l’esperienza drammatica del Lager. Nel 1962 esce il volume di racconti Andremo in città, da cui è stata tratta, per le cure del marito, il poeta e regista Nelo Risi, una versione cinematografica. Edith Bruck ha da lì in poi sempre intrecciato la scrittura in versi e in prosa, di carattere autobiografico o romanzesco, all’interesse per il cinema, per il teatro e per la televisione, per la quale ha curato documentari e speciali su temi legati alla diversità, all’emarginazione e alla sofferenza. Ha inoltre tradotto, fra gli altri, i poeti ungheresi Attila József e Miklós Radnóti. La produzione narrativa, che copre un arco cronologico di quasi sessant’anni, conta più di venti opere: oltre ai testi già citati, si possono qui ricordare anche Le sacre nozze (1969), Mio splendido disastro (1979), Lettera alla madre (1988), Nuda proprietà (1993), L’attrice (1995), Signora Auschwitz (1999), Quanta stella c’è nel cielo (2009), La donna col cappotto verde (2012), La rondine sul termosifone (2017).

La produzione poetica di Edith Bruck è stata raccolta in Versi vissuti. Poesie (1975-1990), libro uscito per le Edizioni dell’università di Macerata (eum) nel 2018. Il volume, curato da Michela Meschini, riunisce le tre raccolte di poesia che Edith Bruck ha pubblicato nell’arco di un quindicennio tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta: Il tatuaggio (1975), In difesa del padre (1980), Monologo (1990). Il libro è accompagnato da un articolato apparato paratestuale che prevede un’introduzione della stessa curatrice, una nota di Paolo Steffan, una postfazione di Edith Bruck, e ripropone la presentazione di Giovanni Raboni alla prima raccolta poetica, Il tatuaggio del 1975.
Questo libro ha il merito di rimettere in circolazione le poesie di Edith Bruck, non più reperibili, o non più facilmente reperibili. E lo fa allineando le tre raccolte che costituiscono l’intera o quasi opera poetica edita dalla scrittrice (si tenga presente che all’opera in versi di Edith Bruck si deve aggiungere anche il poemetto Specchi uscito nel 2005 e una serie di altre poesie edite sparsamente).
Colpisce senz’altro, nel contesto di una multiforme e poliedrica attività creativa, lo spazio preciso e temporalmente ristretto riservato non tanto alla poesia (pratica che la scrittrice afferma di non avere mai interrotto) quanto alla sua offerta pubblica, alla sua ricerca di un lettore concreto e personale; colpisce tanto più per il fatto che tutta l’opera di questa autrice è segnata da una forte, fortissima unità e coerenza nei contenuti e nella postura espressiva. Si tratta di un’opera che scaturisce da un trauma originario e immedicabile, che di necessità impasta esperienza e memoria e fa del presente una continua chiave d’accesso per il passato (e viceversa).
Certo, in linea generale, poesia e prosa svolgono due funzioni diverse: ma ciò è ancor più vero per questa autrice, che affida allo spazio circoscritto e protetto della poesia la possibilità di una più intima confessione, l’occasione di una libertà che significa anche abbandonare, almeno per un momento, la responsabilità pubblica del testimone per recuperare la possibilità di dire solo la ferita, la soggettività della ferita e della mancanza: «E quando avrà termine / questa missione? / Sono stanca della mia / presenza accusatrice, / il passato è un’arma / a doppio taglio / e mi sto dissanguando» (si tenga presente che la metafora del dissanguamento è centrale nella scrittura poetica di Edith Bruck).
Di fronte a questa emorragia che sembra non arrestarsi mai, la poesia, rispetto alla prosa, riesce a trovare un’espressione ancor più nuda e desolata, anzi disarmata: del resto «Di che cosa scrive un poeta se non dell’assenza, di ciò che manca sia dentro che fuori?» afferma l’autrice nella postfazione all’ultima raccolta (Versi vissuti, p. 233).
La poesia è l’interno, il nòcciolo, la cosa più dura e salda, ma è anche la fragilità e la nudità del testimone che si è tolto l’“armatura” pubblica e parla finalmente con sé stesso, solo per sé stesso, per parlare magari in questo modo ancor più autenticamente e intimamente a chi lo ascolta e lo legge. È in sostanza uno spazio al contempo inaccessibile ed esposto, privatissimo e generosamente offerto all’incontro con il lettore; un luogo, soprattutto, in cui si possono invocare tutti i nomi perduti, come quello della madre o del padre, dei fratelli, come anche dell’amato, e si può chiamarli ancora alla parola e al dialogo, si può ancora, almeno per un momento, ricucire lo strappo, tentare di elaborare, in presenza, il lutto. La poesia di Edith Bruck è dunque una poesia che ricerca sempre l’incontro; è anzi una poesia di incontri in cui il tu familiare o affettivo può anche aprirsi a un voi indeterminato: quello che conta è il contatto, la parola detta e offerta a qualcuno che la possa raccogliere.
Proprio per il fatto che questa è una poesia di incontri è anche una poesia sempre al presente: anche quando i tempi verbali sono di necessità al passato la scena o il dialogo che ci vengono restituiti sembrano sempre svolgersi nel presente, nel presente della mente, di una memoria che tiene tutto con sé, e che fa accadere di nuovo ogni volta tutto quanto la fa accendere.

Il tuo latte era già avvelenato
da un presagio minaccioso
le tue braccia stanche
non mi offrivano protezione
i tuoi occhi erano consumati dal pianto
il tuo cuore batteva per paura
la tua bocca s’apriva solo per pregare
o maledire me l’ultima nata che chiedeva rifugio […]
(Infanzia, vv. 1-8).

È come se per un momento, il momento appunto della rivelazione poetica, l’interlocutore non fosse assente, lontano, sparito dal tempo, ma fosse semplicemente nella stanza accanto, separato dall’io che parla da una parete fragile, sottile al punto da far sentire la presenza dell’altro, da lasciarne passare la voce.
Invocazione e colloquio intimo, tensione verso l’altro assente e apertura alla sua presenza interiore sono una cosa sola, testimoniano di una disposizione d’animo che può tenere insieme tempi diversi e lontani. Questa poesia ci dice chiaramente che se la perdita non può essere sanata, se l’assenza non può essere risarcita, e la memoria è un peso che può travolgere, è pure possibile trovare la forza – la forza anche disperata – di entrare in relazione con il presente, una relazione di pari dignità rispetto ad una memoria così dolorosa (e viceversa naturalmente).
Ed è ancora una volta il dolore a fare da elemento conduttore, il dolore del presente che si riallaccia a quello del passato e pure a quello del passato remoto dell’infanzia, di prima del grande trauma della deportazione.
Giovanni Raboni, nella presentazione a Il tatuaggio, con la consueta acuta forza di sintesi ha parlato di «contemporaneità impossibile e ineluttabile» aggiungendo che in questa poesia «ciò che accade è sempre già accaduto, ciò che è accaduto non finirà mai di accadere» (Versi vissuti, p. 38).
Si può allora dire che nella poesia di Edith Bruck convivono gli opposti: compresenza di tempi diversi (passato e presente, e a volte anche futuro), e di luoghi diversi (l’esterno e il lontano del campo di sterminio e l’interno decoroso e vicino della casa borghese, oppure gli spazi miseri e angusti della povertà patita nell’infanzia e la realtà apparentemente addomesticata della vita cittadina); naturalmente la compresenza degli opposti riguarda anche la dialettica di dolore e amore, di solitudine e immersione nella folla, di presenza ribadita mentre si dice l’assenza e viceversa.
La scrittura non può che raccogliere queste spinte contrastanti: la voce che parla dice di sé di essere «condannata al dolore / e alla bellezza in ugual misura» (p. 114), rivendica il suo «disperato ottimismo» (p. 83), denuncia perfino di essere stata da sé partorita in un «doloroso orgasmo». Insomma, pur nella costante proposta di un’intonazione colloquiale, che abbassa il registro senza attenuare la voce, al fondo di queste antitesi, di questi ossimori fondanti (si tratta forse della figura retorica più presente in questi testi), c’è evidentemente l’opposizione fondamentale tra vita e morte, che in effetti trova qua e là anche il modo di dirsi: «l’unica cosa viva era la morte» (p. 80), «la cosa più viva / è la loro fine» (p. 154) ecc.
Sembra proprio che in quel luogo-contenitore che è la poesia per questa autrice, tutto possa alla fine trovare posto, se non ricomposizione. Nella nota che accompagna la sua prima raccolta, Tatuaggio, Edith Bruck scrive: «fin da bambina invece di pregare la sera a letto leggevo le poesie […] ero convinta che la poesia fosse profezia, la poesia fosse la follia dei puri, degli innocenti; la poesia non nasconde né inganna e le poesie riuscite, valide, belle contengono bellezze e verità assolute […] non saprei neanche oggi dire cosa è questo mio libro, so soltanto che questi versi sono nati improvvisamente in uno dei momenti più disastrosi della mia vita e mi erano necessari come ancora di salvezza […]. Ora che forse le mie poesie sono il riassunto di tutto quello che ho scritto, mi trovo di fronte un libro che mi imbarazza» (Versi vissuti, p. 40). L’idea di un rapporto stretto tra poesia e verità, tra poesia e profezia (ma potremmo probabilmente anche aggiungere tra bellezza e salvezza), si intreccia qui con una dimensione istintivamente e autenticamente religiosa, radicata nell’animo incorruttibile di una bambina. È proprio ciò che genera la confessione di imbarazzo finale, il senso di una vicinanza, di una prossimità a ciò che più ci scopre e ci lascia nudi di fronte all’altro. Ma anche accettare questa nudità e questo imbarazzo è segno di forza e di fiducia nella parola poetica, nella sua possibilità appunto di farsi profezia.
Ecco allora un altro paradosso di questi versi: una poesia che nasce da un trauma così profondo, che è così attraversata dalla sofferenza e così intrisa di dolore immedicabile può anche guardare oltre quel dolore e interessarsi del futuro perché nonostante tutto, e al di là di tutto, non si è chiusa alla speranza. L’ottimismo è disperato ma è pur sempre ottimismo.
Del tutto coerente con questa impostazione è allora il titolo scelto per questa silloge complessiva: Versi vissuti. Un titolo che sembra attestare il primato della parola sulla vita, e che dunque conferma il valore altissimo che ha la parola poetica per questa autrice.
Si tratta di una posizione che ci riconduce immediatamente ad un orizzonte poetico ungarettiano; l’Ungaretti che sceglie come titolo per la sua opera complessiva Vita di un uomo (altro è invece l’orizzonte di un Giudici, che ha come programma quello di mettere in versi la vita). E d’altra parte, di ungarettiano, di vagamente ungarettiano questa poesia ha anche qualcos’altro: al di là delle – non troppo frequenti in verità – analogie immediate («sono umida terra […] ho voli brevi», p. 95; «Sono stata […] una cavalla da tiro / una cagna randagia», p. 109; «la solitudine è un ventre materno buio e silenzioso», p. 138; anche con il trattino «madre-cielo […] cielo-madre» p. 105 ecc.), o di qualche ricordo testuale – come «il pedaggio lo si paga / vivendo» (p. 157) che rifà «la morte si sconta vivendo» di Sono una creatura – la poesia di Edith Bruck ricorda figurativamente, a partire dall’aspetto che assume sulla pagina, la “verticalità” della prima poesia ungarettiana (quella del Porto sepolto). I testi di queste poesie infatti si sviluppano in verticale piuttosto che in orizzontale; non cercano il ritmo del verso ma il più delle volte lo spezzano isolando parole singole. Tutt’altro che ungarettiana è invece la sintassi che non è frantumata ma si sviluppa con linearità, senza particolari turbamenti giovandosi, per realizzare quella verticalità, di semplici e insistite catene anaforiche, che quando non rappresentano l’unico punto di appoggio per la struttura del testo si snodano in più o meno ampi elenchi che denunciano il desiderio o la necessità di colmare con il verbo, con la parola, ogni residuo di vuoto: «la morte fisica / la morte dei sensi / la morte che occupa / sempre più spazio» (p. 102); «con la mia vita / con ogni mio gesto / con ogni mia parola / con ogni mio sguardo» (p. 103); «il tuo grembiule / sapeva di mestruo / di farina / di pane caldo / di grano fresco / di gioia / di paura / di morte / di tutto / di niente» (p. 120); «sarai con me / […] / siamo sole / mia tiranna / mia pena / mia madre notturna» (p. 148); «Finalmente mi appartieni / sei mia madre / mia figlia / mia schiava / mia fonte di gioia / mia origine» (p. 150) ecc.
Riconoscere l’unità e la coerenza di impostazione di questa voce poetica non significa denunciarne la staticità, o non riconoscerne la sensibile evoluzione interna. Nel passaggio dalla prima alla terza raccolta infatti accadono alcune cose, si nota bene un percorso evolutivo che porta ad una maggiore apertura alla realtà (il corpo stretto al proprio dolore e raggomitolato di cui parla Raboni funziona benissimo come immagine per Tatuaggio, ma meno bene per la terza raccolta in cui l’amore ha senz’altro uno spazio più ampio, come anche la ricerca da parte dell’io di un posto nel mondo meno precario), e d’altra parte si nota anche un maggiore interesse o una maggiore attenzione per la forma e la struttura stessa del testo, che in Monologo si divide anche in strofe o in parti numerate che si rispondono l’una all’altra, mentre anche il verso si distende in misure più generose e ritmiche (si veda ad esempio la struttura, anisosillabica ma perfettamente coerente sul piano ritmico, dell’incipit di L’ultima visita: «Lì / tra le rovine del nido di un tempo / sul suolo fangoso del tempio distrutto / nel cimitero sepolto da ortiche […]»).
La stessa autrice in effetti, consapevolmente, parla per le poesie della terza raccolta di «versi un po’ più saggi, partoriti dalla mente e non dal ventre, anche se passati per il corpo» (p. 233). Nella continuità della metafora fisica, materna, conta il cambio di sede, che si addice ad un rapporto più saldo e maturo con la propria dolente materia.
A fare la differenza insomma, e a spingere in direzione magari di un tono più vicino a quello della poesia del marito, Nelo Risi, è il piglio narrativo, la voglia di distendere la parola. La tensione verticale di Ungaretti si scioglie in un discorso dal tono sempre sobrio e colloquiale, si vorrebbe dire ancora più fraterno. Ancora una volta un paradosso: verticalità e orizzontalità; concezione della poesia come assoluto e insieme desiderio di dire, e di dire la vicinanza all’interlocutore e al lettore.
Si crea dunque un campo di tensione tra il titolo della silloge e l’opera poetica di Edith Bruck che è un’opera che testimonia della forza paziente di chi riesce a smuovere la montagna del proprio dolore, magari solo per passare ad un altro dolore. Risuonano in questo senso pienamente consonanti I versi di Vittorio Sereni:
«Si fanno versi per scrollare un peso
e passare al seguente. Ma c’è sempre
qualche peso di troppo, non c’è mai
alcun verso che basti
se domani tu stesso te ne scordi».

https://bit.ly/2lAWuRc

 
Scaffale
Eum Redazione

Per la rubrica "Scaffale" in onda all’interno di "Buongiorno Regione Marche" il 30 gennaio 2019 Maria Francesca Alfonsi ha segnalato il volume “Versi vissuti. Poesie (1975-1990)” di Edith Bruck, a cura di Michela Meschini.

Guarda la puntata (min. 24.00 ca)
https://bit.ly/2Bwo1rZ

 
Corriere Adriatico
Eum Redazione

Giorno & Notte, Corriere Adriatico, 27/01/2019

Oggi a Porto San Giorgio
"Versi vissuti" di Edith, testimone di Auschwitz

«Nascere per caso, nascere donna, nascere povera, nascere ebrea è troppo in una sola vita». Sono le parole di Edith Bruck, scrittrice e giornalista sopravvissuta ad Auschwitz. Una raccolta delle sue poesie sarà presentata oggi, domenica 27, alla Società operaia di mutuo soccorso di Porto San Giorgio. "Versi vissuti. Poesie (1975-1990)" è il titolo del volume edito dalla casa editrice Università di Macerata che sarà introdotto dalla curatrice Michela Meschini. La voce recitante è di Milena Pantaloni. Edith Bruck è nata in Ungheria nel 1932. Nel 1959 pubblica il suo primo romanzo "Chi ti ama così", con il quale dà inizio alla carriera di scrittrice e all'attività di testimone della Shoah.

 
Billy, il vizio di leggere
Eum Redazione

Edith Bruck presenta il suo libro "Versi vissuti. Poesie (1975-1990)", a cura di Michela Meschini, a Billy, il vizio di leggere, Tg1, domenica 30 dicembre 2018. L'intervista è di Virginia Lozito.

https://bit.ly/2UVCO75

 
Fahrenheit
Eum Redazione

Nel Caffè letterario della Nuvola di Roma durante la Fiera della Piccola e Media Editoria: Più libri, più liberi Loredana Lipperini e Tommaso Giartosio intervistano Edith Bruck, che presenta i suoi "Versi vissuti (Poesie 1975-1990)", a cura di Michela Meschini.

https://bit.ly/2teqJxQ

 
Robinson
Eum Redazione

Robinson, la Repubblica, 4 novembre 2018

Dissero a noi ragazze che ci avrebbero dato razione doppia se avessimo portato dei giubbotti ai soldati che stavano alla stazione. Non ce la feci a sostenere il peso. Una parte la gettai nella neve. Le altre fecero come me. Un tedesco chiese chi era stato a buttarli. Nessuna rispose. Quello minacciò che avrebbe ucciso una di noi ogni minuto. Feci un passo avanti. Lui cominciò a picchiarmi. Mia sorella gli si gettò contro, eravamo a terra. Ci abbracciammo, convinte di essere morte. Il soldato si fermò e disse: "Se oggi due puzzolenti ebree hanno il coraggio di mettere le mani addosso a un tedesco, allora solo per questo coraggio meritano di sopravvivere"
Scrittrice e poetessa ungherese naturalizzata italiana, è nata in Ungheria nel 1932. Il suo ultimo libro è "Versi vissuti. Poesie (1975-1990)" pubblicato da Eum edizioni.

https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2018/11/04/auschwitzedith-bruck36.html?ref=search

 
Avvenire
Eum Redazione

La Eum di Unimc e Edith Bruck ospiti alla Fiera «Più libri più liberi»

di Giuseppe Luppino, Avvenire, 18/12/2018

Alla Fiera nazionale della Piccola e Media Editoria “Più libri più liberi” di Roma la Eum – Edizioni Università di Macerata, venerdì 7 dicembre, in una sala gremitissima, ha presentato il volume ”Versi vissuti. Poesie (1975–1990)” di Edith Bruck, a cura di Michela Meschini. Sono intervenute l’autrice, la curatrice che è ricercatrice presso l’Ateneo maceratese, e la professoressa Rosa Marisa Borraccini, presidente Eum, che ha tenuto a precisare che con questo volume si è inteso «dare spazio a una voce che – come Eum – vogliamo torni a farsi sentire».
«La ricchezza della poesia di Edith – ha detto Michela Meschini – è in gran parte contenuta nel cortocircuito che si crea, attraverso uno stile elegante e per niente prosastico e con un linguaggio di una forza lancinante, fra il dolore e la rinascita».
E proprio su questo aspetto ha impostato l’intervento la stessa Bruck: occasioni e possibilità di testimonianza le hanno permesso di sopravvivere dopo la terribile esperienza di Auschwitz, «ed è, ogni volta, come una rinascita». Bruck si è detta «contenta di aver pubblicato questo libro con la casa editrice universitaria maceratese, piuttosto che con grandi editori: è come se mi stesse portando fortuna – ha aggiunto – perché in tanti mi cercano, mi invitano; è un nuovo nato, ed esso mi riporta alla vita».
La Fiera si è svolta dal 5 al 9 dicembre 2018 nel nuovo centro congressi della capitale, ”La Nuvola”. L’editrice dell’Ateneo ha anche esposto le proprie novità editoriali presso uno stand condiviso con le Upi–University Press Italiane. La storia di Eum nasce nel 2004, quando un Decreto rettorale istituì il Centro edizioni dell’Università di Macerata. La sigla è divenuta poi marchio editoriale, la cui adozione ha permesso di contraddistinguere nel tempo parte della produzione scientifica dell’Ateneo, agevolandone la disseminazione, garantendone la qualità e consentendo di mantenere la proprietà dei diritti d’autore degli elaborati scientifici, nonché la natura delle collane all’interno delle quali le opere sono pubblicate. Il materiale è pubblicato, secondo quanto richiesto dagli autori, o in forma tradizionale cartacea, o in versione elettronica (pdf, e–pub, e–book, mobi). Informazioni su: http://eum.unimc.it/it

 
La Bottega di Hamlin
Eum Redazione

"Troppo in una vita sola. Il cuore tatuato di Edith Bruck"

di Giorgio Cipolletta, La Bottega di Hamlin, 4 dicembre 2018, https://www.labottegadihamlin.it/2018/12/04/recensione-edith-bruck/

Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre. (Primo Levi)

Edith Steinschreiber nasce in una numerosa famiglia ebrea Tiszabercel (Tiszakarád), un piccolo villaggio ungherese ai confini dell’Ucraina. Nel 1944 la sua famiglia, compresi i suoi genitori, i suoi due fratelli, e una delle sue sorelle, è deportata ad Auschwitz. Edith e la sorella Elizabeth sopravvivono, passando da Auschwitz a Dachau, Christianstadt, e Bergen-Belsen, dove sono liberate dagli Alleati nel 1945. Rimasta orfana dei genitori a soli 12 anni, Edith Bruck torna in Ungheria dove si riunisce al fratello Peter (anch’egli sopravvissuto) e alle altre loro sorelle. Dal 1954 si stabilisce in Italia dove conosce Eugenio Montale, Giuseppe Ungaretti, Mario Luzi e stringe amicizia con Primo Levi. Attraverso l’opera Chi ti ama così (Lerici, Milano 1959), Edith Bruck inizia la sua testimonianza dell’Olocausto adottando la lingua italiana, un distacco emotivo che le permette di ricordare, malgrado tutto. A Roma inizia anche un lungo e intenso sodalizio sentimentale e artistico con il poeta e regista Nelo Risi.

Leggere Edith Bruck è un mal di stomaco atroce. L’esponente della scuola di Francoforte Theodor Adorno ci ricorda che scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie e ciò avvelena la consapevolezza stessa del perché è divenuto impossibile oggi scrivere poesia. Ma proprio dalla forza “curatrice” della poesia ripartiamo, quella di Edith Bruck e dalla raccolta Versi vissuti, edita dalla casa editrice dell’Università di Macerata (eum).

Ad aprire il volume troviamo una prospettiva critica della prof.ssa Michela Meschini e una prefazione di Paolo Steffan. Questa riedizione nasce dall’incontro nel 2017 a Macerata Racconta (il festival dell’editoria marchigiana) con la curatrice del volume, dove Edith Bruck presenta il suo ultimo romanzo La rondine sul termosifone (La nave di Teseo, Milano 2017). Nell’introduzione del volume la curatrice ci fa entrare silenziosamente e con delicatezza fin dentro le scorie e le ferite della poetessa ebrea-ungherese. Ogni suo verso è un sasso nello stomaco e un tatuaggio nella mente che rimane cucito, impresso come quel numero che la stessa Bruck portava con sé nel martirio di Auschwitz. Il volume riedita le tre raccolte della poetessa così suddivise: Il tatuaggio (1975), In difesa del padre (1980) e Monologo (1990). Queste poesie sono state scritte in un breve, ma intenso arco di tempo che va dal 1975 al 1990. Quindici anni, in cui la mancanza si è fatta fonte di rivelazione, di intimità, confidenze, memorie, ferite e resurrezione. Il trauma “sversa” dentro la solitudine e il corpo si fa verso vissuto.
Riflettere sulle parole della poetessa ungherese è come una sorta di resurrezione dalle ceneri, dalle macerie, dalla morte e dalla distruzione. Nascere per caso, nascere donna, nascere ebrea è troppo in una vita sola[1]. Questi versi racchiudono il dolore lancinante dei cani e il macigno della memoria, una scia scura di fumo nero. Una memoria “annerita e bruciacchiata” che si vorrebbe cancellare, con tutto il suo orrore e la sua crudeltà, invece è lì, impressa e tatuata come bocca incenerita. Le parole riempiono con dolore un vuoto assente, che brucia, ferisce come filo spinato.

Le tre raccolte contengono la grafia di una vita spogliata, di una solitudine profonda, dentro ad un grembo materno buio e silenzioso, dove la vita non nasce e la morte è l’unico afflato possibile. Il ricordo fa della testimonianza l’unica fossa traumatica dove la storia ha gettato il suo peso e le sue colpe. Le parole risorgono, urlano sulla violenza taciuta dall’ira funesta. La memoria ha voce di madre “perduta”, frenata dal tempo assassino, mentre le immagini rievocate hanno corpi tatuati, e slavati. L’anima si sente tradita, torturata, glabra, e la forma sparisce ferocemente dietro al suo contenuto. Nausea e indigestione si riversano e soffocano verso un amore rinnovato con cuore paralitico, a metà, sospeso, verme affamato e contenitore di mancanza. Ancora corpi martoriati, messi a vergogna, corpi disprezzati, condannati a morte. Acuto dolore penoso, terribilmente tormentoso nel buio delle notti senza fine.

Le parole di Edith Bruck non ci lasciano scampo. La cifra stilistica è un’eco che non dimentica, continua speranza. Scrivere diviene pane quotidiano, ossigeno di vita, esigenza del corpo e bisogno della mente, morale, etica ed estetica. Un battere della macchina da scrivere come terapia. Aver vissuto a quell’inutilità di dire, di parlare, di contare i giorni, muta verso la faticosa memoria di ricordare, di trasmettere agli altri l’ingiustizia. Le parole della poetessa sono artigli che sfiorano la pelle. Edith Bruck non ci consegna una via di fuga, bensì una “colpevolezza cosciente”, dove testimonianza è sopravvivenza e memoria è cicatrice, mentre la parola si fa rinascita e capacità di amare. La poesia di Edith Bruck è riflessiva, intima e civile. La lingua italiana con cui scrive queste poesie si fa “lingua-protetta-testimone”, armatura e corazza, lingua sradicata da quella materna (l’ungherese) con cui non avrebbe mai potuto testimoniare e ricordare “quella non-vita”. La vita smisura la sua condizione vitale, superando qualsiasi dolore e come fenice si innalza e grida resurrezione. Poesia è responsabilità. L’intimità “ferita” ci rende grazia. Le parole della poetessa sono raggi di luce sulle stigmate della propria storia che si fa grafia. Autobiografia “sporca”, piena, esangue, coraggiosa, dove il marchio del lager, feroce e ferente ci restituisce una seconda vita. Voce (quella di Edith) capace di vivere come donna, agonia d’amore e partoriente di umiltà. Parole s-piegate che entrano dentro terribilmente, ma che i tempi contemporanei, ahimè, non accettano, perché dimenticano. Purtroppo l’odio ancora si mantiene in forma nel nostro secolo e con quanta facilità supera gli ostacoli, e l’acutezza del cecchino che guarda risoluto al futuro[2]. C’è però chi non dimentica nell’inafferrabile vortice magro dell’esistenza. Il peso del vissuto reagisce, si dimena, urla, strazia, e silenzioso compone. Il tempo è unico, ma i tempi della sofferenza sono differenti, allungano la loro coda sporca e arida, magra e fragile, mentre la storia perseguita la parola, la schiaccia, la disintegra e la contorce. Un’eredità atroce per l’essere umano, che continua a dimenticare e ricomincia, ma scrivere resta un atto politico[3].

Vorrei dire
vorrei dire ancora
vorrei parlare
dell’inutilità
di dire[1].

Alla Fiera Nazionale della Piccola e Media Editoria Più libri più liberi di Roma le eum – edizioni università di macerata presenteranno il volume Versi vissuti. Poesie (1975-1990) di Edith Bruck, a cura di Michela Meschini. Venerdì 7 dicembre alle 11.30 in Sala Giove interverranno l’autrice, la curatrice e Rosa Marisa Borraccini.

[1] Bruck E. (2018) Versi vissuti, eum, Macerata, p. 140.

[2] Szymborska W. (2009), L’odio, in La gioia di scrivere, Adelphi, Milano.

[3] Risi N. (1966), Dentro la sostanza, Mondadori, Milano.

 
Noi Donne
Eum Redazione

Di Guendalina Di Sabatino, “Edith Bruck, l'impossibilità (e il dovere) di non dimenticare Auschwitz”, Noi Donne, http://www.noidonne.org/articoli/edith-buck-che-ha-auschwitz-come-coinquilino.php

Edith Bruck, l'impossibilità (e il dovere) di non dimenticare Auschwitz

Sono in libreria le poesie di Edith Bruck raccolte nel volume “Versi Vissuti” (eum 2018), curato da Michela Meschini. Venerdì 26 ottobre presentazione a Teramo (Archivio di Stato)

Mercoledi, 24/10/2018 - Edith Bruck ha pubblicato oltre venti opere in prosa: romanzi, memoirs, opere teatrali, ora sono in libreria le poesie raccolte nel volume “Versi Vissuti” (eum 2018), curato da Michela Meschini, docente nell'Università di Macerata. I versi delle tre sillogi “Il Tatuaggio”, “In difesa del padre”, “Monologo”, scritti dal 1975 al 1990, consegnano al mondo la condizione difficile della sopravvissuta: / … E quando avrà termine / questa missione? / Sono stanca della mia / presenza accusatrice, / il passato è un’arma / a doppio taglio / e mi sto dissanguando...".
Il dovere di non dimenticare è la condanna a ricordare che la costringe al ruolo di “testimone”.
Per Edith Bruck la memoria è gestazione di un dolore implosivo: “Chi ha Auschwitz come coinquilino devastatore dentro di sé, scrivendone e parlandone non lo partorirà mai”, scrive in “Signora Auschwitz”. L’indifferenza, il rifiuto verso “gli avanzi di ghetto, di lager nazisti”, il negazionismo sono le spine dolorose nella carne della testimonianza nei suoi libri e nelle sue poesie: “la carta sopporta parole che neppure lontanamente immaginiamo". Contro l’oblio che insidia l’umanità, la scrittrice privilegia i giovani nella consegna della memoria. I misfatti incredibili del genocidio nazista, compiuti nel cuore della civilissima Europa, negli anni della seconda guerra mondiale, sono accadimenti che possono ritornare : “… le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre”, scriveva Primo Levi, l’amico-fratello di Edith Bruck.
La memoria sensibilizza, attiva la profondità del pensiero che costruisce la coscienza critica delle nuove generazioni nella consapevolezza di essere partecipi di una realtà storica di cui possono rovesciare o conservare le sorti. “Solo il bene è profondo e può essere radicale. Il male… sfida il pensiero... invade e devasta il mondo intero, perché si espande sulla sua superficie come un fungo...”ammoniva Hanna Arendt. Il ritorno dai campi di sterminio è il ritorno alla vita che ricomincia nel nome della madre morta ad Auschwitz insieme al padre e al fratellino. La figura materna nei romanzi e nelle poesie colma l’assenza della perdita e nell’essenza dei versi si staglia come guida, come radice, come ventre, come motivo di rinascita: “Madre… /… in agonia in amore / e in un doloroso orgasmo / ho partorito me stessa.”… Dalla rinascita, “sono rinata / dalle ceneri / come la fenice”, alla nascita in una numerosa, povera, innocente famiglia di ebrei ungheresi, le sillogi condensano riflessioni scritte in tempi diversi: “Nascere per caso / nascere donna / nascere povera /nascere ebrea / è troppo / in una sola vita".
La poesia di Edith Bruck, scrive Michela Meschini, è “una poesia riflessiva, intima, senza essere intimistica, civile senza essere politica”. Eppure essa si inscrive nell’alfabeto della politica umana che risponde al razzismo mai sopito in Europa e nel pianeta costruendo il bene nel reciproco rispetto con ogni diversità e credo. “Se tu vedessi il mondo mamma, preferiresti morire. Ma neanche la morte ha valore. I morti di ieri non hanno riscattato il diritto alla vita dei vivi. Tutto è come prima di Auschwitz” (Lettera alla Madre, Garzanti, 1988).
Edith Bruck è nata in Ungheria. Vive in Italia dal 1954 dove ha conosciuto e sposato il poeta Nelo Risi scomparso nel 2015. Nello struggente memoir “La rondine sul termosifone” (La Nave di Teseo, 2017) racconta l’estrema esperienza d’amore, speranza, dolore per tenerlo in vita il più a lungo possibile nella malattia che lo aveva relegato nell’oblio.
Edith Bruck nella sua lunga carriera ha ricevuto una decina di premi letterari ed è stata tradotta in più lingue. Tra le sue traduzioni ricordiamo Attila József e Miklós Radnóti. Ha sceneggiato e diretto tre film e svolto attività teatrale, televisiva e giornalistica.
Il prossimo 21 novembre, l’Università Roma Tre le conferirà la laurea honoris causa in Comunicazione.
Edith Bruck ritorna a Teramo per l’onorificenza dell’Ordine al merito dell’Ateneo “Guido II degli Aprutini” che l’Università degli Studi di Teramo le conferirà insieme a Emma Bonino. Il titolo onorifico, voluto dal Magnifico Rettore Luciano D’Amico, sarà consegnato ad entrambe nella cerimonia di sabato 27 ottobre alle ore 9:30, nell’Aula Magna “Benedetto Croce”. Un ritorno per un importante riconoscimento Accademico nella città che le assegnò il Secondo Premio Teramo con il racconto “Il cavallo” nel 1960, l’anno dopo la pubblicazione del suo primo romanzo autobiografico “Chi ti ama così” (Marsilio). Nell’occasione, venerdì 26 ottobre, alle ore 17:00, nella sala conferenze dell’Archivio di Stato, Edith Bruck, molto attesa, incontrerà la cittadinanza e le nuove generazioni. A queste ultime, da circa vent’anni, testimonia l’orrore vissuto nei lager nazisti negli appuntamenti organizzati dal centro di cultura delle donne “H. Arendt”, impegnato con la Scrittrice a mantenere viva la memoria della Shoah.

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il venerdì di Repubblica
Eum Redazione

Nelle poesie di Edith Bruck il lager non è solo memoria

di Massimo Raffaeli, Recensioni d’autore, il venerdì di Repubblica, 6 luglio 2018, p. 86.

Perdita irreparabile o incubo ancora quotidiano, Auschwitz è il tema dominante della testimonianza in versi della scrittrice italo-ungherese.

(…) La lingua di Bruck è scabra, essenziale, il suo tratto è lineare ma molto prossimo alla verticale lancinante della poesia, per antico amore ai campioni della lingua materna (sua è la splendida versione da Attila Joszef che uscì da Mondadori nel 2002) come per la pluridecennale prossimità a Nelo Risi, il compagno della sua vita. Dunque non deve stupire che Bruck, nel baricentro del percorso, abbia pubblicato ben tre raccolte poetiche a partire da in titolo emblematico, Il tatuaggio (’75), che oggi con encomiabile iniziativa studenti e docenti dell’Università di Macerata raccolgono in un unico volume, Versi vissuti. Poesie 1975-1990 (a cura di Michela Meschini, eum) (…)

http://www.repubblica.it/venerdi/

 
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