di Andrea Lattocco, "Bollettino di studi latini" 47, 2017, pp. 912-913.
L’edizione dello Scipio curata dal Flammini, constante di tre parti: Premessa (9-14), Scipio Tragoedia (55-143), corredata del commento ai 3 atti che la compongono, e La tragedia Scipione. Traduzione italiana (145-179), oltre a tributare giustizia al testo di un’opera inedita e sconosciuta, secondo i dettami tradizionali della filologia classica, colma un vacuum relativo alla produzione tragica, continuata ed innovativa da parte dei Gesuiti, prima dello smantellamento del loro ordine, per decreto del pontefice Clemente XIV nel 1773. Tragedia conservata nel manoscritto 791, di 20 folia 208x200 mm, nella biblioteca comunale “Mozzi-Borgetti” di Macerata, incarna e testimonia da un lato, la nitidezza dello specimen senecano, ancora fervido, concretato nella scelta del trimetro giambico e nell’impianto della trama, dall’altro, concede linfa cristiana all’arbor pagano che, rigenerandosi, si rinverdisce grazie ad una sostanziale rilettura del tradizionale eroe classico che da pagano diventa heros christianus. L’A. motiva, fin dall’introduzione esplicativa, le cause e gli scopi che spinsero i Gesuiti, e chi presso di loro studiava, a rappresentare piéces teatrali, aventi come tratti salienti la martirizzazione del protagonista, il quale, ad gloriam Dei, si esponeva alle vessazioni di un tiranno, la cui ambitio regni lo rendeva bersaglio di tormenti e peripezie di ogni sorta. Si individua da subito la finalità di tali allestimenti nelle prescrizioni agli allievi di fornire chiari exempla delle tecniche ed arti oratorie, apprese durante gli anni di studio, da poterli realmente palesare sulla scena e così da giustificare anche i nuovi dettami sottesi ad opere che, lungi dal contenere ancora i germi della voluptas classica, miravano essenzialmente ad una rilettura in chiave cristiana delle res gestae, ancorché compiute da eroi pagani, ma che ben si attagliavano alla fisionomia di un cattolicesimo ancorato a determinati modelli, consentendo il passaggio dal vir bonus dicendi peritus al vir catholicus dicendi peritus. Lo Scipio, tragedia in tre atti di argomento senecano, si considera opera di un altrimenti ignoto padre Stefano Desideri, che, però, a causa di un errore di lettura compiuto dal de Backer durante la decifrazione del codice, è riportato come Messidori dallo stesso. In seguito l’A. allarga l’obiettivo d’analisi al contesto del teatro gesuitico, le cui radici affondavano nella chiusa e ferrea volontà di contrastare, con ogni mezzo, il protestantesimo dilagante in Europa, unitamente alla palpabile giustificazione dei nuovi principi etici e didattici pretesi dalla rinnovata Ratio studiorum. Gli spettacoli avvenivano in date certe ed eventi prefissati, salvo rare eccezioni, collocabili alla fine dell’anno scolastico ed alle feste di carnevale. I testi naturalmente comportavano l’eliminazione di qualsiasi elemento sconveniente e poco consono alla severitas cristiana, anche se si rilevano importanti aperture per assecondare il gusto del pubblico astante, oltre che per adattarsi anche alle esigenze culturali con cui l’ordine gesuitico veniva a contatto. Tuttavia dall’A. sono individuati due eventi che influirono nella formazione e definizione del nuovo teatro rinascimentale: la scoperta della Poetica di Aristotele ed il credito sempre più consistente riconosciuto al corpus tragico senecano, la cui editio princeps si colloca nel 1484 a Ferrara.
Senza entrare nel merito di una trama piuttosto intricata e dedalica, basti sapere che lo sfondo storico d’ambientazione della tragedia, di cui l’argumentum è parte integrante, al Desideri è stato ispirato dal libro XXIX delle Storie liviane, in cui si racconta di Scipione contro una parte di Locresi, durante l’ultima fase della seconda guerra punica (202 a C.). Pleminio, infamiae atque invidiae imperator, mantiene i tratti dell’antieroe pagano, corrotto, ambizioso e divorato dalla sitis regnandi, come ogni tiranno senecano. Nell’omonima tragedia, Pleminio intesse trame per screditare il valente Scipione agli occhi del senato romano, deciso infatti a rivelare l’amore invertito tra il generale ed il giovane Amorno. Se dall’inizio il luogotenente Pleminio può contare sull’appoggio del suo collega Pleurato che invia a Roma Fabullo, per consegnare una missiva di denuncia al senato, in seguito, proprio costui si ravvede in un monologo interiore dal sapore senecano. Infatti Pleurato, ormai redento, convince Fabullo a desistere da un viaggio così lungo e periglioso. Intanto Fabullo inventa di essere stato aggredito e derubato di tutto il materiale da un brigante, così da stornare la punizione di Pleminio nei suoi confronti. Scipione, già arrestato su ordine del senato, riesce ad evadere grazie ad Adrasto, Cassandro e Silano, pur travestito da donna; il dramma si chiude con la morte di Pleurato che aveva ingerito un veleno a lento rilascio, per la colpa dell’iniziale tradimento, e con la punizione di Pleminio, mutilo del naso, colpevole dei reati a lui ascritti dalla commissione d’inchiesta.
Anche se i personaggi intorno ai quali la tragedia ruota, sono tre, il vero eroe s’incarna in Pleurato, latore di un toccante messaggio pedagogico e morale, intriso di motivi cristiani, del peccato e della conseguente redenzione, che si ottiene tramite il sacrificio dello stesso. L’A. inserisce, prima del testo latino della tragedia, un puntuale studio metrico sulle realizzazioni del trimetro di Desideri, per il quale segnala, in modo analitico, tutte le differenze rispetto al modello senecano, tra cui merita di essere segnalata l’effrazione della nota norma del tribrachys fractus, rispettato sempre da Seneca, in cui, quando la prima breve, coincidente con la sillaba in tesi, è finale di parola, le restanti due formano i brevia nella parola seguente, ovvero vige il divieto di ˘˘/˘. Grazie anche al dovizioso e puntuale corredo di loci similes, fornito dall’A., di cui il Desideri si è servito per imbastire la trama, la corrente ed unica edizione dello Scipio, spicca per rigore filologico-ecdotico, efficacia ed utilità dell’inquadramento storico-culturale dell’Ordine gesuitico, con fecondi e feraci spunti per eventuali approfondimenti, ed una meritoria attenzione alla parte metrica.
Si ascrive pertanto a merito dello studioso l’acume e l’acribia specialistica che hanno reso possibile dissipare una coltre, altrimenti caliginosa, sovrastante la produzione letteraria in versi di matrice cristiana.