di Andrea Rondini, moked. il portale dell’ebraismo italiano, Pubblicato in Attualità il 24/04/2015
Una delle più rilevanti problematiche degli studi sulla Shoah riguarda la trasmissione della memoria alle nuove generazioni. Non si tratta di uno stucchevole adagio: la memoria – e non solo del genocidio – è un bene la cui sopravvivenza non è scontata nel mondo contemporaneo; inoltre la Shoah, pur avendo una inestinguibile specificità ebraica, è uno dei paradigmi, se non il paradigma, della nostra modernità, un evento che costituisce e ferisce la cultura occidentale. Studiare la Shoah vuol dire conoscere le dinamiche del totalitarismo, dell’avversione verso l’alterità e la differenza, dell’uso manipolatorio delle tecnologie, della distorsione dei concetti di diritto e di legge, della falsificazione della scienza, dell’alterazione dei rapporti psicologici tra gli esseri umani e delle relazioni tra vittime e carnefici. Si potrebbe continuare: l’immensa bibliografia sulla Shoah ricorda come essa sia un eccezionale, nella sua atrocità, perimetro di riflessione e scoperta scientifica su dinamiche attive ancora oggi (basti pensare, ma è solo un esempio, al grande paradigma biopolitico e agli studi dedicati alla ‘nuda vita’). Del resto, come ha scritto Hannah Arendt, per le circostanze che ha dovuto subire, il popolo ebraico «parla per tutti i popoli della terra».
Non a caso la Torre Einstein è immagine centrale (Paolo Coen, Un progetto di Erich Mendelsohn per la Torre Einstein a Potsdam, simbolo della Rete Universitaria per il Giorno della Memoria) del discorso memoriale. Essa infatti unisce, per usare le parole di Coen, «Shoah, sofferenza, discriminazione; arte, architettura, scienze esatte; infine: resistenza, lavoro, ritorno alla vita». Essa venne eretta nel 1924: progettata e realizzata da Mendelsohn, era stata ideata da un allievo di Einstein, l’astrofisico Finlay Freundlich per studiare i cambiamenti dello spettro luminoso in relazione al campo di gravità del sole. Poiché collegata a uno studioso ebreo (Einstein, che la visitò) e realizzata da un altro ebreo (Mendelsohn) la torre subì l’ostracismo nazista e perse la sua indipendenza. È tra l’altro considerata ancora oggi un capolavoro dell’architettura espressionista.
Un aspetto su cui il volume insiste molto è in effetti proprio quello dei luoghi della memoria, come musei, monumenti commemorativi, oppure campi di transito, ma anche scuole. Essi si pongono come segni del passato aperti sull’oggi e sul futuro, quindi intersezione di una vitale dialettica temporale.
Luca Zevi, Luoghi di una memoria (più o meno) ben temperata analizza e discute le realizzazioni museali e le politiche della memoria che hanno portato alla costituzione, per citarne solo alcuni, dello Yad Vashem e del Museo di Storia della Shoah di Gerusalemme, dello Jüdisches Museum e dell’Holocaust Denkmal di Berlino, del Memoriale ai Caduti di San Lorenzo e del Museo nazionale della Shoah a Roma. Zevi mostra molto bene i significati simbolici delle scelte architettoniche, il loro rapporto con il paesaggio o lo spazio urbano: il Museo di Storia della Shoah di Gerusalemme, per esempio, si inserisce nel paesaggio in modo brusco e lacerante, volendo segnare la ferita inestinguibile che la Shoah ha inferto all’umanità mentre la forma di ‘scatola nera’ su cui sono incisi i nomi delle vittime italiane del nazismo, che riveste e ricopre gran parte del Museo romano, comunica come la tragedia sia un macigno sospeso sulle nostre teste, sulla nostra storia. L’architetto non manca poi di sottolineare quali siano a suo avviso i rischi, talvolta, di una spettacolarizzazione, non completamente fine a se stessa ma in qualche modo prevaricante sulla natura specifica di questo tipo di opere (come nel caso dell’Holocaust Denkmal di Berlino).
Vi sono anche luoghi in qualche modo sommersi e che sono stati invece teatro di deportazioni e reclusioni, strumenti nascosti ma non secondari nell’atroce macchina organizzativa dello sterminio e del totalitarismo. Alcuni docenti dell’Università di Bologna, all’interno di una serie di iniziative e corsi di didattica sulla Shoah, hanno attivato corsi di “active remembrance” guidando i giovani in luoghi dimenticati di memoria, come a Forlì l’ex Brefotrofio, il Carcere della Rocca, l’ex Albergo Commercio, il Campo di Aviazione (Maura de Bernart – Alessandro Bozzetti, Quando la storia e la didattica della Shoah si incentrano sui siti minori di memoria: l’esperienza e la riflessione presso l’Università di Bologna – Campus di Forlì).
All’incrocio di storia e arte si situa anche l’attività di un artista la cui opera è in fase di forte rivalutazione e in un certo senso anche di scoperta dopo anni di parziale oblio, Bruno Canova, autore del ciclo L’arte della guerra, un progetto che, iniziato negli anni Sessanta del secolo scorso e protrattosi nel decennio seguente, ha dato vita a un libro e a quadri collegati al volume. Il ciclo si propone come un originale recupero di documenti storici (manifesti, ritagli di giornale, fotografie) montati con campiture verbo-visive, secondo le tecniche della grafica di Albe Steiner, del collage futurista-dadaista e dell’informale (Lorenzo Canova, Arte e didattica della Shoah nel ciclo l’Arte della guerra di Bruno Canova). L’arte della guerra costituisce un viaggio all’interno dell’incubo storico novecentesco che comprende opere dedicate ai crimini del colonialismo italiano in Africa, alla Prima e alla Seconda Guerra Mondiale, ai totalitarismi e naturalmente alla Shoah, rappresentati con disegni visionari e graficamente molto articolati. In questo particolare ambito si collocano, tra gli altri, Terezín (1972), Terzo Reich (Una nazione padrona del mondo) (1973), Operazione notte e nebbia-annientare gli ebrei (1973), lavori nei quali non manca neppure un denuncia delle colpe italiane nella persecuzione degli ebrei. Canova ha proseguito il suo discorso con opere come Genocidio (2000) in cui si ibridano sempre collage e documentazione storica.
In modo diverso, ma al contempo affine, anche la scuola è naturalmente sede di trasmissione culturale e valoriale, soprattutto se essa è intitolata a Primo Levi: alla usuale funzione pedagogica, l’istituzione scolastica che riconosce nell’autore di Se questo è un uomo il proprio tratto identitario specifico, unisce una ulteriore vocazione a concepire la cultura come capacità di stabilire un rapporto critico con il mondo e con la tecnologia, sapendo riconoscere gli enzimi embrionali del male, oggi spesso ammantati di seduzione, ed esprimerli con chiarezza (Sandra Renzi, Se la scuola è intitolata a Primo Levi).
Oltre alla fondamentale azione di conoscenza, riflessione e sensibilizzazione, i musei, i memoriali, i luoghi e le opere d’arte possono svolgere un’ulteriore funzione immaginativa e relazionale, possono cioè consentire di immaginare e percepire il dolore degli altri (Francesca Romana Recchia Luciani, “La cognizione del dolore”. Descrivere, immaginare, rappresentare la sofferenza altrui). La percezione del dolore non nostro avviene dopo un lavoro di accumulazione di esperienze percettive e cognitive che costruiscono una relazionalità empatica anche in absentia del soggetto che patisce. Il lavoro dell’immaginazione supera così il pur importante dato referenziale, primo gradino dell’ascesi empatica, per accedere e trovare dentro di sé, quasi come un dovere morale, la violenza che altri hanno subito.
Una delle inside e dei pericoli più gravi a tutto questo discorso è quello dello smercio dello pseudopensiero revisionista o addirittura negazionista, un’infamia che si esprime talvolta apertamente ma che in altri casi può assumere tratti più subdoli, magari agganciandosi alla grande fantasmagoria della rete internet. Come ricorda Claudio Vercelli (Antichi risentimenti e nuove derive), il web azzera la relazione docente-discente e illude quest’ultimo che l’orizzontalità di rapporto e la facilità di acquisizione siano prodromi alla conquista del sapere (in questo caso un falso sapere). La rete tra l’altro esalta le caratteristiche narcisistiche del negazionista che trova nella tribuna virtuale un palco in cui esaltare il proprio ego. Il rapporto tra negazionismo, globalizzazione, nuove tecnologie e web, all’interno di un discorso sulle possibili barriere legislative contro il morbo negazionista, è discusso anche da Simone Misiani (La verità e i suoi nemici. Una riflessione sulla storia della memoria dal dopoguerra ad oggi) che rivendica la necessità per lo storico, e più in generale per l’intellettuale, di confrontarsi con l’universo della comunicazione di massa. Soprattutto nell’Italia e nell’Europa contemporanee, incapaci di approntare una vera identità basata sulla Memoria e attanagliate da una crisi economico-culturale che produce conformismo e paura; l’Occidente europeo diviene in tal modo sempre più permeabile a spinte irrazionalistiche nelle quali possono trovate fertile humus la propaganda antisemita e le follie negazioniste.
Jörg Luther (La scienza del diritto costituzionale può contribuire alla didattica della Shoah?) sottolinea come la Shoah abbia ispirato alcuni punti della Costituzione italiana (per esempio la tutela delle minoranze linguistiche e il divieto della guerra come strumento di offesa), ricostruisce i passaggi sanciti dal diritto internazionale, in particolare del Consiglio d’Europa, per tentare di prevenire qualsiasi ricaduta negazionista, xenofoba, razzista o collegata ai cybercrimini (azioni legislative meno semplici di quanto si possa pensare, perché la serie di divieti connessi alle misure preventive devono comunque sia salvaguardare i diritti alla libera e sana espressione e si inseriscono in un continente, l’Europa, che si pensa e si propone come intrinsecamente democratico).
Cultura, consapevolezza, istituzioni scolastiche, apporti legislativi sono anche i vettori di una nuova Europa aperta e tollerante, diversa quindi da quella che per secoli ha purtroppo recepito, coniato e dato credito a pregiudizi antiebraici; un immaginario che è divenuto un vero e proprio paradigma in cui l’ebreo diviene il nemico per eccellenza, sordido traditore degli amici per puro interesse e doppio del diavolo, cui lo legano il colore scuro, la puzza e il commercio con la sessualità delle donne (Roberto Finzi, L’incubo del diverso: alle origini dell’antisemitismo e del razzismo).
Naturalmente la dimensione mnestica cui è consacrato il volume non può non riguardare la prospettiva storica, approcciata da diverse angolazioni (anche con riferimento alle relazioni del Vaticano con le confessioni cristiane separate durante il ventennio fascista: Antonio Cataldi, Il Pontifico Collegio Etiopico di Roma da Benedetto XV a Pio XI). Vengono così analizzati i sistemi di pensiero razzisti (Adele Valeria Messina, «Pulire il Paese da ogni grumo insolubile»: note per uno studio su Edward Alsworth Ross e l’ideologia razziale negli Stati Uniti di fine Ottocento – inizio Novecento), lo sterminio dei Rom (Giorgio Giannini, Il genocidio dimenticato dei Rom), i meccanismi ideologici totalitari (Antonella Argenio, L’ombra lunga del totalitarismo: per una delimitazione categoriale). Argenio si sofferma sull’analisi del totalitarismo compiuta da Hannah Arendt; la filosofa pone alla base del sistema tanatopolitico una distorsione del pensiero: esso diviene un sillogismo indimostrato, un paradigma di “idee” irreali che fungono da piattaforma indimostrata di una ideologia totalmente impermeabile alla verifica fattuale e che si autoalimenta della propria falsità, presentata come ferrea concatenazione logica. La storia si intreccia alla teologia nella ricostruzione del paradigma antiebraico sviluppato nel mondo islamico delle origini (Valentina Colombo, Il “Tradimento” degli Ebrei. Alle origini del negazionismo nel mondo islamico).
Viene ricostruita anche la microstoria, che ha un suo insostituibile valore etico e si presenta come un exemplum, un racconto morale. È il caso di Gino Bartali, il fuoriclasse del ciclismo, che ha salvato un intero nucleo familiare ebraico, la famiglia Goldenberg, trovando loro un nascondiglio in uno scantinato di Firenze nel periodo seguente l’armistizio. Grazie alla testimonianza di Giorgio Goldenberg, Bartali è uno dei Giusti riconosciuti dallo Yad Vashem (Adam Smulevich, «Bartali mi ha salvato la vita»: la testimonianza di Giorgio Goldenberg in favore di Gino Bartali, Giusto fra le Nazioni).
Tra i diversi codici espressivi esplorati nel libro, non poteva mancare uno studio focalizzato su una via fondamentale della conoscenza e della cultura: il linguaggio, in particolare il linguaggio del sacro. Clara Ferranti («Non nominare il nome di Dio invano») esplora l’eccezionale ricchezza fonetico-semantica del Tetragramma JHWH mostrando, attraverso una serrata analisi dei passi biblici, come il Gott mit uns sia una ripresa blasfema e capovolta del messaggio d’amore biblico e cristiano nel quale, particolare fondamentale, l’evocazione di Dio equivale alla volontà dell’uomo di amare tutti i suoi simili. Le stesse modalità di pronuncia sono indice della natura sacra del Nome. Come invocare Dio, come pronunciare Colui che salva l’uomo, quali suoni associare al Tetragramma? Si tratta di un problema di non facile risoluzione perché storicamente la pronuncia che in modo congetturale viene ritenuta la più probabile poteva essere usata solo in rarissime occasioni e solo da pochissimi (i sommi sacerdoti): il suo uso è stato quindi sottoposto, per la sua assoluta sacralità, a forti limitazioni, nel VI secolo a. C. è stato addirittura proibito ed ha inoltre richiesto una vocalizzazione essendo interamente consonantico (ma una vocalizzazione che si basava sui nomi che avevano sostituito il Tetragramma, vale a dire Adonài ed Elohìm). Il sostrato fonetico si coniuga alla componente semantica per dare vita a un concetto di Dio come comunicazione tra Creatore e creatura, uniti da un legame libero e responsabile, nonché come Soffio Vitale che si pone all’origine e alla fine della vita dell’uomo.
Figli della memoria è un volume importante perché offre, da un lato, una serie di preziosi saggi scientifici di taglio specialistico e certamente spendibili anche in sede didattica e, dall’altro, è una riflessione, da più punti di vista ma in ultima analisi unitaria, sulle modalità odierne di trasmissione della Shoah. Si percepisce nel libro uno slancio di iniziative e di studi, la voglia di approntare strumenti di analisi e di conoscenza che si stagliano su un orizzonte sociale, culturale e politico per molti aspetti percepito come preoccupante, tormentato e inquieto, da rendere meno distopico con gli strumenti della cultura e della memoria. La memoria è peraltro terreno comune di tutte le civiltà, come ricorda anche Emanuele Pellegrini (Il museo e la memoria. Il caso di Dar Al-Tifel a Gerusalemme) impegnato nella ristrutturazione di un museo di arte e cultura palestinese a Gerusalemme Est.
Del resto la scrittrice Nava Semel (I figli della memoria) ha posto al centro di un suo libro, E il topo rise, la catena umana dei “ricordatori”, le seconde e terze generazioni che, quando saranno ormai completamente assenti i testimoni diretti della Shoah, continueranno a portare alta la fiaccola del ricordo, che non sarà solo un archivio personale di dolore ma anche enzima collettivo di formazione di una coscienza morale sempre più evoluta.
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