di Eleonora Destefanis, L’Antiquité Classique (85), 2016, pp. 628-631
Il volume si configura quale raccolta dei contributi del convegno La villa del Casale e oltre. Territorio, popolamento, economia nella Sicilia centrale tra Tarda Antichità e Alto Medioevo, tenutosi a Piazza Armerina dal 30 settembre al 1° ottobre 2010. L’approccio al tema trattato, anche in rapporto al fulcro intorno al quale si articolano le diverse riflessioni proposte – la celebre Villa del Casale, una delle evidenze certamente meglio note per quanto attiene all’edilizia di alto livello del Mediterraneo tardoantico –, si rivela innovativo e molto proficuo per l’avanzamento degli studi sul complesso, che, forse proprio in ragione dell’eccezionalità, anche di conservazione, dei suoi apparati decorativi e particolarmente musivi, sin dagli anni della sua scoperta alla metà del XX secolo, ha risentito di un’attenzione molto concentrata sugli aspetti storico-artistici, a loro volta poi intrecciati con una vivace quanto dibattuta ricerca di ordine prosopografico, tesa all’individuazione del proprietario della villa. La ripresa delle indagini archeologiche negli anni recenti, sotto la guida di Patrizio Pensabene, unitamente alla revisione degli scavi condotti sul sito in precedenza, ha trovato varie sedi di pubblicazione, di cui quella in “Seia” costituisce un momento significativo, anche in virtù di un impegno di indagine che si amplia, sotto varie angolature, al contesto in cui il sito si inserisce. I contributi di Ernesto De Miro e, in misura più diffusa, di Patrizio Pensabene guidano il lettore attraverso alcuni temi fondamentali per una riconsiderazione generale di questo complesso, in cui il momento tardoantico – di certo quello più noto, come si è detto – viene finalmente sottratto ad una visione monolitica in cui troppo spesso esso è stato rigidamente incluso, per essere restituito ad una prospettiva dinamica, esito di una successione di fasi costruttive e decorative, che obbligano a riconsiderare, globalmente e in relazione a una scansione cronologica tanto serrata quanto articolata, la villa, le diverse funzioni dei suoi comparti e la progressiva formulazione dell’impianto, che si determina per aggregazioni di nuclei con diverse destinazioni d’uso, oggetto a loro volta di modifiche, anche di rilievo, nel corso del tempo. Tra le davvero numerose, importanti acquisizioni su cui si pone l’accento, si colloca l’ascrizione dell’area a sud del peristilio rettangolare del plesso comprendente la sala triabsidata e l’ampia corte porticata ovoidale che la precede (il cosiddetto Xystus), da inquadrarsi, analogamente al monumentale comparto di ingresso a triplice arcata e alla retrostante corte poligonale, in un momento di pieno IV secolo, successivo quindi alla fase in cui si situa l’edificazione del nucleo che trova nell’aula basilicale il suo centro ideologico ben più che topografico (fine III secolo-età costantiniana). L’identificazione dei diversi momenti che portano ad una progressiva strutturazione (e ristrutturazione) del complesso, tuttavia, non ne mette soltanto in luce, a seguito di attenta lettura stratigrafica, la sequenza costruttiva, ma riapre una pluralità di aspetti che toccano le stesse intenzioni progettuali e il progressivo attuarsi di queste attraverso il IV secolo, all’insegna di quello che emerge come un rafforzamento dell’immagine e del ruolo dei proprietari via via succedutisi. Al di là dell’identità di questi – tema su cui si torna a più riprese nel volume, con una dettagliata discussione – l’elemento di rilievo è senza dubbio costituito dall’approccio metodologico nella valutazione, in chiave di ricostruzione storica, dell’evidenza materiale, in cui le trasformazioni architettoniche sono lette in stretta ed imprescindibile connessione con quelle che investono gli apparati decorativi. Una connessione che, ad esempio, fa emergere, congiuntamente allo sviluppo delle strutture, una progressiva “marmorizzazione” degli ambienti destinati alla rappresentanza, esito di precise scelte decorative (e ideologiche) in rapporto ad altrettanto chiare gerarchie di spazi, all’interno delle quali i rivestimenti a crustae in pietre pregiate (che non a caso interessano in primis la basilica) si rivelano certamente di maggiore impegno rispetto ai pur raffinatissimi tappeti musivi. Lo stesso ricorso alla pittura per gli elevati è variamente modulato, attraverso i vari ambienti e in prospettiva diacronica, con episodi di notevole livello, tra cui la realizzazione della scenografica quinta con membri della famiglia proprietaria e insegne militari che animava il fronte di ingresso e di cui attenti restauri hanno consentito una restituzione densa di significati, che gettano nuova luce anche sulle forme di auto-rappresentazione dell’alta aristocrazia di cui il complesso è espressione. Molti e fortemente innovativi sono gli spunti che la fase tardoantica della villa, la quale pure vanta una lunga tradizione di studi, riserva, da una sua più corretta ricollocazione, anche sulla scorta dei litotipi impiegati – in larga misura non provenienti dai bacini estrattivi imperiali – in un contesto di committenza “altolocata, e di personaggi vicini all’amministrazione centrale (Pensabene, p. 37), ma non qualificabile come diretta emanazione del potere imperiale stesso, alla restituzione al complesso, grazie al ritrovamento di un vero e proprio quartiere di servizio nei pressi dell’ingresso, di funzioni non solo di rappresentanza, ma anche di gestione economica e di immagazzinamento dei prodotti di una vasta proprietà latifondistica. Questa, come molte altre dell’Isola, non è da intendersi come necessariamente accentrata, come dimostrano le perspicue riflessioni di Domenico Vera, in un quadro (cui ben si attaglia il concetto di “sistema agrario” coniato dallo stesso autore) molto articolato quale quello delle campagne tardoantiche mediterranee, in cui il compito precipuo della villa sembra quello di gestire la rendita ben prima che di organizzare e coordinare la produzione. Sui modelli architettonici sottesi da un complesso che si va definendo in forme in parte diverse dall’immagine trasmessa dalla storiografia meno recente si interroga Paolo Barresi, individuando sostanzialmente l’impossibilità di ricondurre questa e molte altre ville coeve, contraddistinte da una pluralità di soluzioni e di relative sorgenti di ispirazione, ad un unico precedente, con possibilità di accostamenti (mai di puntuali ed esaustivi confronti) tra aree anche molto lontane dell’ecumene tardoantica. I nuovi dati disponibili sulla villa del Casale consentono anche un suo inquadramento in un panorama più ampio che è quello delle ville coeve, uno dei temi al centro del dibattito storiografico su questo orizzonte cronologico, che Carla Sfameni ripercorre, con un opportuno, ulteriore rimando al più vasto ma imprescindibilmente correlato filone di studi sull’organizzazione delle campagne tardoantiche e altomedievali: una rassegna alla quale apportano ora importanti contributi anche gli studi raccolti nei due numeri 2012 e 2013 della rivista Antiquité tardive, dal significativo titolo Mondes ruraux en Orient et en Occident. Il caso della villa pugliese di Faragola, in altro orizzonte geografico, descritto da Giuliano Volpe e Maria Turchiano, giunge a confermare ulteriormente la centralità del tema nella ricerca archeologica attuale. Il fil rouge del contesto della villa del Casale perseguito nel volume si dispiega su più direttrici: il territorio immediatamente circostante e l’intera area ennese– a partire dalla città di Enna, di cui Ferdinando Maurici traccia uno spaccato in particolare per l’età bizantina –, si delinea progressivamente attraverso le nuove risultanze archeologiche che restituiscono un panorama insediativo molto diversificato nel panorama post-classico, con ville di più modesta entità, quale quella di Gerace (presentata da Carmela Bonanno), il vicus non lontano dalla villa, di cui Giacomo Manganaro ricostruisce in parte la fisionomia, soprattutto grazie a testimonianze epigrafiche, sino allo studio, particolarmente concentrato sulle evidenze funerarie, del distretto rupestre a nord di Enna, oggetto delle considerazioni di Daniela Patti. Rimane invece un po’ in ombra la pur centrale questione della cristianizzazione e soprattutto dell’organizzazione cristiana dei territori considerati, fenomeni che Vittorio Giovanni Rizzone considera tardivi nel cuore della Sicilia interna in cui la villa del Casale si sviluppa; del resto, nell’ambito della stessa villa, la presenza di lucerne con simbologia cristiana, dalla concentrazione sicuramente significativa nell’ambito del frigidario delle Terme, ma scaglionate su un ampio arco cronologico che arriva sino all’VIII secolo, impone di considerare con estrema prudenza l’ipotesi proposta di identificazione dell’ambiente con un possibile oratorio, nella ben nota e ormai comprovata impossibilità di individuare in oggetti mobili a soggetto religioso un indicatore di adesione alla fede cristiana del proprietario e tanto meno della funzione cultuale di uno spazio. Il problema, come si diceva, è nondimeno centrale, anche soltanto considerando il nodo dell’identificazione della massa Gelas menzionata da Gregorio Magno con la mansio Gelas in Philosophianis dell’Itinerarium Antonini (e quindi dell’eventuale passaggio, peraltro non unanimemente condiviso, della villa e del latifondo nelle proprietà della Chiesa, nel VI secolo), problema cui pure si fa ripetutamente riferimento nel volume, sin dall’Introduzione di Francesco Paolo Rizzo. In un più ampio quadro di respiro regionale, Alessandro Pagliara delinea, del resto, una molteplicità di posizioni, anche non ortodosse (proprio a partire da un tema complesso quale quello del rapporto ricchezza-salvezza eterna), che restituiscono un multiforme quadro della vita religiosa all’aprirsi del periodo post-classico nei territori siciliani. Anche su un piano cronologico, la villa tardoantica è ampiamente inserita in una prospettiva più estesa, che ne indaga innanzitutto i precedenti, mediante un attento lavoro di ricucitura di strutture già note e di nuova identificazione, che permettono di restituire un complesso anteriore, risalente al I sec. d.C., e aprono al contempo nuove piste di riflessione in merito al ruolo di tale preesistenza nell’organizzazione stessa dell’impianto tardoantico. All’estremo cronologico opposto si collocano i dati presentati sugli sviluppi del sito, tra abbandoni e parziali rioccupazioni a partire dal VII secolo, sino alla ristrutturazione in forme completamente nuove, a partire dal X secolo, con il villaggio arabo-normanno (un po’ troppo genericamente definito in più luoghi del volume “medievale” tout court), anche in rapporto al controverso, ma non meno rilevante problema della possibile identificazione del centro quale luogo dell’antica Piazza. La prospettiva diacronica che si spinge sino a momenti piuttosto avanzati dell’altomedioevo, del resto, è condivisa da altri contributi nel volume e in particolare da quello di Lucia Arcifa sui dati di Cittadella di Morgantina, che offre lo spunto per una riconsiderazione di un più ampio territorio in cui una rioccupazione insediativa tardobizantina, tra la fine dell’VIII e gli inizi del IX secolo, è indiziata dalla presenza di caratteristiche pentole da fuoco con decorazione “a stuoia”: queste, associate ad elementi toponomastici e a forme di abitato a capanne non apparentemente assimilabili alla tradizione costruttiva locale, inducono al riconoscimento di popolazioni alloctone, nello specifico di matrice slava, che l’Impero bizantino avrebbe introdotto in siti strategici lungo importanti arterie stradali, ai fini del rafforzamento della difesa. Una conclusione, in ogni modo, da sottoporre ad attento vaglio con ulteriori approfondimenti della ricerca, come in tutti i casi in cui si spinge l’identificazione in chiave etnica di soluzioni abitative piuttosto che di produzioni con specifiche caratteristiche non consonanti con il panorama locale. L’apparato illustrativo è, soprattutto in alcuni contributi, ben rappresentato, anche se, soprattutto per quanto riguarda la cartografia, la leggibilità è alquanto difficoltosa e una documentazione grafica più articolata per la villa del Casale (in particolare si avverte l’assenza di una pianta complessiva con le fasi individuate) avrebbe forse aiutato maggiormente il lettore ad accostarsi ai problemi e alle discussioni di grande stimolo che questo volume prospetta.
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