di Filippo Focosi, anno II, numero 1, 2014, i castelli di yale • online
"Postmoderno" è uno di quei termini, come e forse più di "minimalismo", che vengono usati così di frequente e nei contesti più disparati da farci correre il rischio di perderne la reale e originaria connotazione. L’altra sera, per dirne una, l’ho sentito pronunciare dal compianto John Ritter, alias Jack Tripper della vecchia serie televisiva Tre cuori in affitto (che l’emittente Frisbee trasmette ininterrottamente da quasi due anni), il quale, nel commentare lo scombinato mazzo di fiori messo su alla rinfusa da Janet (una delle due co-inquiline) in preda a un attacco di gelosia, ha esclamato: «originale… postmoderno!». Ma gli esempi potrebbero moltiplicarsi a dismisura, e ovviamente investire la sfere più alte del pensiero e della cultura (quante musiche, così diverse tra loro, vengono classificate sotto questa etichetta!).
Proprio dalla constatazione della fortuna del termine "postmodernismo" e insieme dell’ambiguità delle sue innumerevoli accezioni prende le mosse l’analisi di John Picchione, che con questo suo libro, Dal modernismo al postmodernismo, intende chiarire tale concetto, innanzitutto ricostruendo l’intricato legame che intrattiene col suo diretto antecedente, il modernismo. Intricato perché, come spiega bene l’Autore nel primo capitolo, molti sono i tratti comuni ai due movimenti culturali, al di là delle diverse circostanze economiche, storiche, filosofiche e sociali che ne hanno favorito lo sviluppo. Il disincanto, dubbioso e critico, verso la realtà; la perdita di fiducia nella possibilità di conoscere a fondo se stessi e gli altri; l’incertezza che circonda l’agire e il conoscere: tutto ciò trova eco tanto nelle pratiche pittoriche di scomposizione, astrazione e collage dei pittori modernisti quanto nell’attraversamento trasversale delle tecniche e dei procedimenti più disparati operato ad esempio dagli esponenti della Transavanguardia. Così pure, la scoperta di nuovi sistemi di composizione musicale (che abbattono le gerarchie codificate dal sistema tonale) e l’assimilazione del rumore da parte dei musicisti modernisti si ripercuote nella contaminazione imperante e nella progressiva dissoluzione del valore dell’unità formale che si ritrovano nelle opere di diversi compositori postmodernisti. Più netto è invece il cambiamento in ambito architettonico, dove si riscontra il rifiuto dei valori modernisti del razionalismo e della purezza, a vantaggio di un’architettura inclusiva e ibrida, asimmetrica e stravagante, che ammicca intelligentemente al gusto popular senza rinunciare alla finezza intellettuale. Ed è proprio qui che si possono iniziare a mettere a fuoco le peculiarità del postmodernismo, che Picchione individua tanto nell’accentuazione o amplificazione di alcune soluzioni formali del modernismo, quanto in un’attenuazione emotiva verso i soggetti che entrambi si trovano a mettere a tema.
Ma lo scopo principale dell’Autore è mettere alla prova tali considerazioni con quanto è avvenuto nelle pratiche poetiche e letterarie, all’esame delle quali egli antepone (nel secondo e terzo capitolo) una ricostruzione puntuale degli antecedenti del postmodernismo relativi alle teorie della scrittura, nonché ai paradigmi filosofici e psicologici del Novecento.
Riguardo alle prime, viene sottolineato il fondamentale apporto delle teorie decostruzioniste e post-strutturaliste di marca francese e americana, le quali negano al testo la capacità referenziale e dunque bollano come velleitaria qualunque pretesa conoscitiva del mondo esterno come di quello interiore. Esse contrappongono un modello di assoluta auto-referenzialità e chiusura nel mondo figurale e metaforico del testo stesso, il quale può tutt’al più rinviare ad altri testi, in un gioco di rimando aperto e teoricamente senza fine. Pur riconoscendo gli aspetti positivi di una siffatta visione della scrittura e della sua interpretazione, soprattutto in termini di accoglimento di paradigmi culturali e interpretativi nuovi e più aperti, Picchione non lesina critiche ai suoi esiti più estremi, ravvisati nella negazione di ogni forma di strutturazione interna e intenzionale al testo, e dunque della sua capacità di orientare il percorso interpretativo intrapreso dal lettore e limitarne le eventuali ricerche forzate di discontinuità narrative e pluralità semantiche. Passando dal versante strettamente letterario e semiotico a quello più genericamente culturale, Picchione passa in rassegna quei pensatori – da Lyotard a Baudrillard, da Vattimo a Jameson – che hanno in vario modo contribuito a definire il concetto di postmodernismo, accentuandone i tratti distintivi rispetto al modernismo, ravvisabili nell’abbandono delle grandi narrazioni a favore di piccoli racconti, nella sostituzione dei concetti di gusto, bello e forma con quelli di informe e sublime, nella rinuncia all’autenticità e alla veridicità di qualsivoglia sistema gnoseologico, morale ed estetico (di cui è prova, in quest’ultimo campo, l’affermarsi del pastiche che, a differenza della parodia dei modernisti, esercita una contaminazione stilistica e citazionista priva di prospettive critiche e satiriche). Anche qui, Picchione diffida delle generalizzazioni e osserva acutamente la paradossalità di prospettive che, nel celebrare il relativismo culturale e il localismo morale, li trasformano in nuovi (e pericolosi, come osservato da Eagleton) assolutismi.
Queste ed altre considerazioni forniscono a Picchione una mappatura teorica che lo guida nell’analisi della forma d’arte che, per la propria vocazione semantica, più di ogni altra è in grado di dar corpo alle istanze postmoderne: la letteratura. Ma anche in questo àmbito (oggetto del quarto capitolo), l’Autore ritiene utile partire da una ricognizione delle pratiche poetiche e narrative del modernismo, in cui la già citata perdita di fiducia nella sostanzialità dell’io, l’alienazione che il soggetto vive nella società contemporanea, conducono comunque a un qualche estremo tentativo di recupero dell’autenticità smarrita: non in progetti assoluti e universali, bensì nel rifugio personale in mondi altri – la Natura primigenia (Gozzano, Ungaretti, Zanzotto), lo stato pre-logico dell’infanzia e degli affetti domestici (Pascoli) – o nel recupero della dimensione corporea e istintiva (D’Annunzio); pur consapevoli, come i personaggi di Pirandello o lo Zeno di Svevo, che tale ricerca può essere anch’essa illusoria e destinata al fallimento. Una ricerca, questa, che a partire dagli anni Settanta viene meno, come dichiarato nella prima antologia di poesia postmodernista (La parola innamorata. I poeti nuovi 1976-1978, a c. di G. Pontiggia e E. Di Mauro, Milano, Feltrinelli, 1978), la quale celebra con gioia (o quantomeno senza il senso tragico dei modernisti) la perdita di unità esistenziale e insieme narrativa, il fluire superfluo e vacuo delle parole che, all’esaurimento delle possibilità formali e dunque di significazione, risponde con la riappropriazione e combinazione libera e (talvolta) dilettevole di citazioni e stilemi che spaziano dalla lirica medievale e dal Barocco fino al linguaggio gergale e popolare della società contemporanea. Sulla stessa lunghezza d’onda, romanzieri a vario titolo rubricabili come postmoderni accentuano la dimensione fittizia e fantastica della narrazione esprimendo una pluralità impensabile di punti di vista (Calvino); danno voce allo svuotamento di senso della realtà mettendo in scena personaggi "evanescenti" in totale balìa degli eventi equivoci e fortuiti (Tabucchi), del disordine indistinto del vivere cui contrappongono un ritrovato senso del comico (Celati) o cui si abbandonano sconfitti finendo per confondersi nel mondo dei consumi, così fedelmente riprodotto dallo stesso linguaggio letterario sintatticamente fluido e frammentato, e (di nuovo) ricco di citazioni, stralci di canzoni, tecnicismi, slogan pubblicitari (Aldo Nove). Rimangono anche qui delle perplessità, sollevate da Picchione, riguardo la legittimità di una letteratura che, in assenza di una chiara gerarchizzazione formale e di un qualche prospettivismo interno, rinunci del tutto a porsi come alternativa a una realtà che dovrebbe illuminare; o, nel caso in cui lo scarto tra mondo della finzione e mondo esterno fosse individuato nella dilatazione dei linguaggi propri di quest’ultimo, nella riconoscibilità e nell’efficacia di un siffatto metodo. Inoltre, mi sia permesso aggiungere, siamo sicuri che le possibilità di sperimentazione formale (e dunque di comunicazione di nuovi contenuti) si siano del tutto esaurite? (Non era quello che affermava, ad esempio, Schönberg riguardo alla musica tonale, mentre Ravel e Gershwin scrivevano capolavori muovendosi con originalità entro quel sistema che si voleva abbandonare?).
Al tentativo di rispondere al pressante interrogativo se sia possibile, da parte dell’arte (in specie letteraria) postmoderna, ereditare le istanze "rivoluzionarie" delle Avanguardie moderniste, è dedicato il quinto e conclusivo capitolo. Se alcuni degli autori che si sono occupati della questione rispondono negativamente (Guglielmi), altri si mostrano più fiduciosi al riguardo. È il caso di Sanguineti e, ancor più significativamente, di Barilli, il quale propone un modello di postmodernismo che, seguendo le direttive della "normalizzazione" e della "estensione quantitativa" delle soluzioni formali introdotte dalle avanguardie, può avvicinarsi alla sensibilità dell’uomo comune – tematizzandone i problemi e i desideri, o introiettando le nuove tecnologie informatiche – e cercare di influenzarne gli atteggiamenti e il modo di pensare. Se ciò, dal punto di vista tanto degli scrittori quanto dei lettori, coinvolga solo casi isolati, e se la neoavanguardia possa risorgere solo dalle ceneri del postmodernismo e a partire da un ritorno a valori sociali, culturali ed estetici come la fiducia, la verità e il realismo, è un’ulteriore opzione che altri autori (ad es. Hassan e Luperini) favoriscono e su cui lavorano. Si può forse imputare a Picchione – cui va riconosciuta una ricostruzione illuminante dei rapporti tra modernismo e postmodernismo, puntellata da rilievi critici quanto mai centrati – di non aver insistito troppo sulle possibili vie d’uscita alle situazioni d’impasse di volta in volta denunciate, magari ricercando esempi e modelli alternativi (alla visione predominante e di marca fondamentalmente nichilista) interni al postmoderno stesso. Ma, mi rendo conto, si tratta di un compito arduo, che magari sarà affrontato, si può sperare, in altri e altrettanto interessanti testi.
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