di Francesco Paolo Rizzo, 100 (2012), pp. 720-723
Sono pagine dense di dati, ché non ve n'è alcuno che venga omesso fra quanti hanno rilevanza per il tema annunciato nel titolo. L'A. se ne serve valutandone l’attendibilità e pervenendo non di rado ad interpretazioni originali. Talvolta, anzi, ne vien fatta emergere per la prima volta la connessione con la tematica trattata. Tale costante attenzione filologica si manifesta funzionale al delineamento dello sviluppo storico.
Il background della ricerca è limpidamente presentato nella «Premessa» (pp. 13-15): al rilievo dell’iniziale struttura lacunosa degli studi – influenzata dal cinquecentesco De rebus Siculis del Fazello – l'A. contrappone il vasto panorama della storiografia siciliana (Amico, Cluverio, Pirri, Mongitore, Gaetani, Maurolico, ecc.) riprodotta nel settecentesco Thesaurus di Grevio e Burmann. Un excursus, questo, opportunamente filtrato attraverso la comprensione che ne ebbero i moderni: interessanti i tratti critici riguardanti la manchevole prospettiva di Momigliano; rimarchevole la tillemontiana notazione di Narbone, per il quale «la storia ecclesiastica non può segregarsi da quella civile senza mutilare la serie de' fatti, senza dimembrare il corpo della narrazione». Quanto alla storiografia contemporanea, infine, caratterizzata dall'abbondanza di studi particolari, se ne segnalano le due opere di sintesi, per l'archeologia quella di Wilson, e quella mia per il versante storico.
Il primo capitolo (pp. 17-21) è dedicato all'evento alariciano, i cui inquietanti segnali sono colti nelle relative puntualizzazioni di Zosimo e Socrate, e in particolare nella scultorea espressione di Claudiano, per il quale la Sicilia, «inquieta per l'angusto canale, desidera fuggire lontano ed estendere il mar Ionio ritraendo il Peloro». Il momento clou (il sacco di Roma del 410) è ritratto attraverso il drammatico grido di Palladio («quella Roma, che era stata abbellita da mille e duecento anni di amore, divenne una rovina»), e dunque, per l'indovinato riferimento al danno derivatone alle proprietà di Melania, è abilmente connesso con le coeve condizioni esistenti nell'isola. Infatti, le essenziali pennellate con le quali Pagliara – sulla scorta di Geronzio e dei moderni (Rostovtzeff, Sirago, Giardina, Brown) – rappresenta la fuga in Sicilia di questa tipica rappresentante dell'aristocrazia romana, opportunamente integrate dall'epistolario simmachiano e dall'Itinerarium Antonini, si risolvono in un quadro chiaro (ed anche efficace grazie agli spunti ereditati da Wilson e Vera) della coeva vita economica e sociale dell'isola. Quanto poi ad Alarico stesso, l'A., dopo averne rapidamente rievocato con Jordanes la calata fino al Bruzio, descritto con Rufino l'incendio di Reggio, e indovinato – come già Gibbon – la smania di possedere la Sicilia, ne attribuisce
correttamente ad un naufragio il mancato passaggio nell'isola, pur non omettendo di ricordare che secondo Olimpiodoro ne sarebbe stata causa il potere apotropaico della statua posta sullo Stretto. L'A. non manca pure di accennare – con richiamo ad una essenziale letteratura (Holm, Bury, Stein, Manganaro) – alla fedeltà dai Siciliani mantenuta ad Onorio, e – secondo la più verosimile interpretazione di Cod. Theod. 7.13.20 – alla loro esclusione dal beneficio dell'esenzione dall'obbligo dell'aurum tironicum: qui, invero, sarebbe stato opportuno un rinvio alla Cracco Ruggini, che di tale interpretazione è l'autrice.
Pagliara completa poi le notizie relative al capo dei Visigoti attribuendogli il saccheggio di una delle Eolie, verosimilmente Lipari, e a ragione se proprio al vescovo dell'isola Melania donerà l'oro necessario al riscatto dei prigionieri catturati dai barbari.
Nel secondo capitolo (pp. 23-42) l'A. si occupa della presenza (ma sarebbe meglio dire dell'assenza) dell'eresia in Sicilia. Anche se non strettamente pertinenti al tema, ma utili per tratteggiare il lento processo di cristianizzazione dell'isola, sono le pagine da Pagliara dedicate agli avvenimenti, veri o presunti, dei primi quattro secoli dell'era volgare. Da segnalare l'originale rilievo relativo all'appellativo «ape sicula» attribuito a Panteno, a proposito del quale l'A. avverte la risonanza delle analoghe latine espressioni di Verg. ecl. 1.53-54; 7.37; Mart. 2.46.1-2; 5.39.3; 11.8.8; Pervig. Ven. 49. (Ma del passo di Clemente Alessandrino citato a tale proposito la traduzione non è mia, come si afferma a p. 25 nt. 9, ma di G. Pini, da me stesso segnalato).
Passando poi al V secolo, l'argomento dominante è, naturalmente, quello del Pelagianesimo: se ne vede la prefigurazione nella dottrina (essere privo di peccato l'uomo battezzato) predicata in Sicilia da Eracleone (secondo il pur inficiato Praedestinatus) e nelle credenze (impassibilitas e impeccantia) denunciate da Girolamo come redivive praecipue Siciliae et Rhodi. La sezione inoltre che attiene alla sfuggente presa della vera e propria eresia di Pelagio nell'isola contiene una singolare dissertazione sulla quaestio ricchezza-salvezza: l'atteggiamento da Agostino consigliato al siracusano Ilario (tamquam non possidens, tamquam non utens) viene ritenuto essere in sintonia con gli insegnamenti di s. Paolo e sostanzialmente coerente con la dottrina – sostenuta dallo stesso vescovo di Ippona specialmente nel famoso sermo recentemente acquisito da Dolbeau, nonché dagli «scrittori di 'vite sante'» – secondo la quale «come la ricchezza non è un male in sé, così la povertà scissa dalla virtù non è bene».
Il terzo capitolo (pp. 43-48) è dedicato alla vicenda dell'usurpatore Prisco Attalo, conclusasi col suo confino a Lipari nel 417. Nei riguardi di quest'isola lo studioso Pagliara ha già nel passato manifestato un particolare interesse, ed anche nella presente trattazione, esaurita l'esposizione dei relativi avvenimenti (sulla scorta di Prospero d’Aquitania, Orosio, Sozomeno, Zosimo, Olimpiodoro, Filostorgio, e della letteratura contemporanea), è sulle isole Eolie che egli indugia, mettendo pur cautelativamente in relazione con detto confino il nome Dattilo di una piccola isola del gruppo eoliano, già attestata come isola «d'Attalo» da J. Hoüel, nonché i ruderi della villa romana rinvenuta da Bernabò Brea in un'isoletta dell'arcipelago di Panarea e vista dallo stesso Hoüel. Lungo ben quattro capitoli si snoda la trattazione concernente i Vandali. Iniziando (pp. 49-52) con l'esaminare la prima stagione delle loro incursioni in Sicilia (440-442), Pagliara si dichiara d'accordo con «la storiografia contemporanea più avveduta» nell'attenuare le fosche tinte delle pertinenti notazioni cronografiche, ma evidenzia, riconoscendone la veridicità di fondo, l'afflictio dichiarata da Prospero e da Cassiodoro, l'assedio a Panormo riferito da Idazio e da Isidoro, la drammatica attesa emergente dalla Nov. 9 di Valentiniano, le sofferenze subite da Pascasino seconda una lettera dallo stesso inviata a papa Leone. Particolare interesse presenta il rilievo – tratto, seguendo la Cracco Rugguni, dalla Nov. 1.2 di Valentiniano – sulla «compenetrazione socioeconomica profonda tra la Sicilia e l’Italia, realizzatasi a livello elitario dal IV secolo in avanti».
Il periodo successivo alla pace stipulata nel 442 tra Valentiniano e Genserico e protrattosi fino al 455 (Prosp. ep. chron. 1346-47) è studiato da Pagliara nella prospettiva dei benefici ravvisabili sia sul terreno profano (pp. 53-56) che in quello religioso (pp. 59-70). Vengono integralmente trascritti e con mirabile competenza illustrati i due mazzariniani testi epigrafici relativi ai restauri operati rispettivamente a Siracusa e a Catania; e quanto sulle medesime città emerge dall'ordo urbium nobilium e dalla expositio totius mundi et gentium viene significativamente rapportato a quel contesto che vide progressivamente spostarsi l'epicentro della vita siciliana e il suo potenziamento economico e politico conseguente all’ordinamento dioclezianeo.
Quanto alle attestazioni più strettamente pertinenti alla storia della Chiesa di Sicilia, esse vengono singolarmente esaminate nel segno della visione ottimistica già da me sostenuta in contrasto con quella del Lancia di Brolo. Oltre al quadro delle dodici sedi diocesane che si assestano nell'isola nel corso del V secolo, non sfugge all'attenzione di Pagliara il coevo e consistente incremento fondiario ecclesiastico di Sicilia, per valutare il quale egli si addentra nel ginepraio delle questioni giuridico-amministrative legate all'interpretazione dei relativi testi: posso dire che, a mia conoscenza, non esiste altro studio in cui l'intero complesso di tali testi sia esaminato con pari paziente meticolosità. Inoltre, il discorrere sul latinofono Pascasino di Lilibeo, suggeritogli peraltro dalla considerazione della condotta accentratrice della Chiesa romana, induce Pagliara ad affrontare in buona sintesi anche quel problema (il linguistico) che S. Mazzarino definì «il più grave della storia siciliana» e intorno al quale il Nostro ci offre l’opportunità di rileggere le limpide conclusioni del Ferrua.
La trattazione (pp. 71-74) dell'ultimo periodo della vicenda vandalica (456-476) risente della difficoltà incontrata per esprimere un giudizio univoco: da una parte, testi come quelli di Salviano, di Prisco e di Procopio, inducono Pagliara a ritenere – con la Cracco Ruggini – innegabile la barbara vastitas; dall’altra, il modo di esprimersi di Vittore di Vita gli fa pensare – con F. Giunta – piuttosto ad un predominio politico. In realtà, non si tratta di due posizioni assolutamente inconciliabili, e, in ogni caso, saggiamente lo stesso Pagliara, considerando la qualifica di Getarum nutrix attribuita circa un secolo dopo all’isola da Jordanes, reputa le devastazioni di Genserico prive di conseguenze di lunga durata.
Finalmente nell’ultimo capitolo (pp. 75-80), cambiata ormai nel 476 la scena in Sicilia, l'A., attraverso Vittore di Vita, ce ne fa intendere la situazione di fondo, caratterizzandola – causa il tributarium ius cui era tenuto Odoacre e il residuo dominio vandalico di Lilibeo – come quella di una «coabitazione» di padroni. Di questa forse sarebbe stato utile evidenziare meglio il tenore pacifico. La largitio di Odoacre a Pierio, esaminata con la già nota perizia in materia di atti amministrativi, costituisce tuttavia un vivido squarcio di quegli anni, che si concludevano nel 491 con la presa di possesso di Teoderico.
Evento, quest'ultimo, che offre all’A. l'opportunità di rivisitare, nella loro chiara successione, i passi delle variae cassiodoree pertinenti all'isola, per spingersi anche oltre la fine dello stesso periodo gotico, quando, due anni dopo la conquista di Belisario, Totila – come racconta Procopio – taccia l'ingratitudine dei Siciliani con le seguenti parole: «aspettavano l’occasione di fuggire dai padroni, per trovarsene di nuovi e sconosciuti». E con esse, purtroppo, anche Pagliara conclude.
«Bibliografia» e «Indice delle fonti citate», posti alla fine del volumetto, sono eloquenti testimoni di un lavoro condotto senza risparmio di fatiche per riscrivere nel segno di un serio ripensamento la storia di uno dei periodi più interessanti della Sicilia tardoantica.